Un amico senegalese, ingegnere prestato all'economia di strada, con l'aria furba del finto ingenuo, mi ha istruito sulla visione che gli africani hanno dell'uomo bianco, da loro definito con una sola parola: tubab.
La definizione generale è ovviamente influenzata dal contatto con quella specie particolare di tubab che è l'uomo italiano.
Ma andiamo alle caratteristiche generali: il tubab, l'uomo bianco, ostenta un senso di superiorità, si sente intelligente, al di là dell'effettivo QI, è attaccato esageratamente alle cose materiali, è insicuro e quindi assicura tutto (gli oggetti, la casa, la vita), è tracotante quando beve alcolici e rifiuta l'idea della morte.
Per il tubab tutto il mondo è rappresentato dal paese (non nazione, proprio il borgo, il quartiere!) in cui vive: li si mangia meglio che altrove, c'è tutto, non manca niente, si vive da re, ma non immagina neppure lontanamente che in Africa, un uomo che si nutre di solo miglio sia più felice di lui...
Mentre gli africani accettano la morte precoce e la povertà senza perdere la gioia di vivere, perchè tristezza e povertà insieme sarebbero un fardello impossibile da sopportare, il tubab, di fronte a un insuccesso o ad un lutto entra facilmente in depressione.
All'opposto del tubab c'è il nit-kou-niul, l'uomo nero africano: anche in questa parola è racchiusa una certa maniera di vivere, di mangiare, di concepire la vita.
I senegalesi in particolare non prendono mai sul serio gli impegni del tubab, forse prevenuti dall'esperienza della schiavitù, di cui furono vittime nell'isola di Gorée, vicino a Dakar, e soprattutto dalla beffa napoleonica, che dopo l'abolizione della schiavitù al grido di liberté, fraternité, égalité, zitto zitto la ripristino qualche anno dopo. Ma alla cultura africana, almeno a quella senegalese manca, per sfortuna o per sfortuna, lo spirito vendicativo, non tentano di ricattare moralmente gli eredi degli schiavisti: é stato così e basta.
Tra i senegalesi pochi delinquono, nonostante le terribili condizioni di vita a cui sono sottoposti nel loro paese e qui in Europa; quando questo avviene, cioè quando vengono meno i freni inibitori di una millenaria cultura, questo rappresenta una profonda ferita per la comunità d'origine.
L'uomo senegalese, secondo il mio amico, vive ancora in uno stato di perfetta purezza, gira nelle nostre città, si adatta al caos, alle nuove regole, agli obblighi burocratici per lui incomprensibili, alle scadenze, ma se ritorna nel suo villaggio riprende la vita di prima come se non fosse mai partito, non contaminato dalla società materialistica e consumistica.
Ma nonostante quello che dice il mio amico, che sicuramente avrà ragione sulle caratteristiche di fondo, anche per il mite e puro senegalese, quando é troppo é troppo e allora ecco la scelta di fuggire l'immobilismo della società, la miseria endemica, questa volta inflitta ad opera dello stesso nit-kou-niul ed ecco allora l'esodo biblico verso l'Europa misteriosa e a tratti indecifrabile, ma tuttavia attraente, perchè permette di vivere..
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