La palestra della discordia
Sono sicuro che qualcuno, leggendo l'articolo che segue, commenterà: vedi come li accolgono, sti buonisti del c..., coricati per terra, non c'è posto qua! aiutateli a casa vostra! Le condizioni igieniche non sono dignitose, qua non ci possono stare...ecc.ecc.ecc. Ma la realtà, come spesso accade è diversa: forse a qualcuno disturba che esista ancora un altro Veneto, non coartato dalla propaganda.
La palestra della discordia di Portogruaro ha visto schierati, da una parte, come da copione, l'amministrazione di centro destra che mette i bastoni tra le ruote e cerca cavilli, dall'altra la gente, il volontariato, le cooperative correttamente funzionanti e il vero popolo veneto, solidale, umano e realista. Non resisto alla tentazione di pubblicare il pezzo di Alessandra Borella, uscito su repubblica due giorni fa, che illustra con esempi e storie di vita le situazioni che sto affrontando nella serie di articoli: profughi, clandestini o....esseri umani
Vita da migrante:
a Portogruaro la "palestra della discordia" diventa esempio di integrazione
I migranti in fuga da guerra e miseria scuotono il mondo e l'Europa. C'è chi ha trascorso l'estate tra loro, portando generi di prima necessità e, soprattutto, calore umano. In una palestra in provincia di Venezia ci sono 54 persone da due mesi. La gestione è di una cooperativa in provincia di Modena, ma la solidarietà dei cittadini ha trasformato questa emergenza estiva in una bellissima storia di accoglienza, nonostante le proteste di alcuni esponenti politici locali, governatore compreso
(di ALESSANDRA BORELLA - “La Repubblica” del 04 settembre 2015)
Teddy è categorico: “Non mi piace questo cibo”. Sai, gli dico, c’è un detto da noi: "A caval donato non si guarda in bocca". “E cosa vuol dire?”, chiede lui. Che quando ricevi qualcosa in dono, non dovresti mai lamentarti. La traduzione del proverbio richiede qualche minuto, ma lui capisce subito. “Ah. Ok. Però mi manca la zuppetta da tirare su con il pane e mangiare con le mani”. È uno dei pochi, lì, che parla inglese. Di fronte ha del riso al tonno, un pesce bianco (non molto saporito) e dei piselli. Così anche gli “ospiti” musulmani possono mangiare. E anche volontari e avventori. Commestibile, ma ben lontano dalle cinque stelle di cui parla qualcuno. Che evidentemente non è mai stato a pranzo lì.
Due squadre di calcio, un trofeo, una coppa. Un'infermiera che li protegge, tante "mama" che li coccolano tra le signore del quartiere. Hanno visto di tutto, questi giovani ragazzi scappati alla guerra, alla miseria, ai soprusi di una vita decisa da 32 foglietti dentro due cartoncini del colore sbagliato: il passaporto per la salvezza loro non ce l'hanno. L'emergenza continua e nonostante il disinteresse dell'amministrazione comunale, in questa palestra di Portogruaro l'accoglienza ha funzionato: giovani, anziani, pensionati, cittadini solidali che si sono impegnati per dare a questi ragazzi qualche cosa da mangiare, da vestire e, soprattutto, conforto e calore umano.
Teddy e altre 53 storie. Teddy è nigeriano. Il gruppo terrorista affiliato ad Al Qaeda, Boko Haram, gli ha raso al suolo la casa. Sua madre è morta. Lui fa lo sbruffone e scherza su tutto, a partire dalla mia telecamera, "sequestrata" da uno di loro che ci gioca. Scherza anche su di lui, Teddy. Poi però prende il cellulare e digita un numero che squilla a vuoto. "Non risponde. Non c’è più", dice. Sua madre non c'è più. Lui è uno dei 54 migranti ospitati dall’istituto scolastico Gino Luzzatto a Portogruaro, in provincia di Venezia, da inizio luglio, ma sono più di 200 le persone distribuite tra Eraclea e San Donà di Piave: dentro questa palestra ci sono 54 persone, 54 storie. Ognuna delle quali meriterebbe di essere raccontata. Molti sono minori; sono originari per lo più dell’Africa subsahariana, ma c’è anche un gruppetto proveniente dal Bangladesh. Quasi tutti hanno attraversato il deserto. Basta nominare Agadez e i loro occhi si fanno bui. Quasi tutti hanno guardato la morte da vicino, mentre erano sopra i barconi nel Mediterraneo. Quasi tutti partiti dalla Libia verso “Lampa Lampa”, la salvezza, così come viene chiamata Lampedusa. Il prefetto li ha mandati lì, ma adesso che iniziano le scuole devono essere trasferiti tutti. Non si sa quando, non si sa dove. Il gruppo dei 14 originari del Bangladesh sono arrivati a Annone veneto, altri sono in partenza per Marghera e la riviera del Brenta in appartamenti privati convenzionati con la cooperativa e i ghaniani sono ospiti alla Croce Rossa di Jesolo. Finalmente una stanza, un po' di privacy, sogno di ogni notte di una estate intera.
Nord sud ovest est. Accade a Portogruaro, a pochi chilometri dal red carpet della Mostra del cinema al Lido di Venezia che ospita una marcia scalza per sensibilizzare anche il pubblico più glamour alla tragedia in corso, a molti di più dal festival delle migrazioni di Acquaformosa, piccolo paesino di mille abitanti nel cuore del Pollino nel quale in cinque anni sono passati oltre 600 migranti. Così, mentre la foto choc del bimbo sulla spiaggia di Bodrum fa il giro del mondo e l'emergenza migranti continua in tutta Europa, la punta più a est del Veneto e quella più a ovest della Calabria vantano due esempi concreti di solidarietà, integrazione, accoglienza. Dal basso, dalla comunità. Da est a ovest. Da sud a nord, quasi fino al confine col Brennero, dove un'altra palestra sta diventando esercizio di accoglienza.
Veneto solidale. "La preside dell’istituto Luzzatto di Portogruaro, di competenza provinciale come tutte le scuole, è stata molto disponibile", spiegano i volontari. Del resto, così ha deciso il prefetto. I parroci della zona avevano fatto un sopralluogo in alcune strutture della Chiesa, che erano già occupate da altre attività o in condizioni non adatte ad ospitare persone. “Il Comune se ne è chiamato fuori e, anzi, ha cavalcato le polemiche a livello regionale e la “furia” di Zaia. Il sindaco non si è mai fatto vedere”, dicono i volontari. E a noi non risponde. Però in Veneto ci sono attualmente 5.184 profughi il 6% dei presenti in Italia, (si dovrebbe raggiungere quota 8%) e 1 su mille in relazione ai 5 milioni di abitanti (in Germania sono 2, in Francia 4, in Svezia 14, tanto per fare degli esempi). Incaricata dell’accoglienza per questa emergenza estiva nel nordest, su delega del prefetto, una cooperativa di Carpi, la Solaris.
Solo qualche contusione. Non è così facile entrare nella palestra. All’ingresso c’è Florica, infermiera specializzata della cooperativa. Capelli rossi e occhi verdi come il camice che indossa. Sguardo severo. Un vero Cerbero. E non c’è pagnotta che tenga. Protegge questi ragazzi come fossero suoi. Di origini romene, lavora in Italia dal 2007: è lei che si occupa della loro igiene. Sono in salute. Non c’è nessun rischio sanitario. Lo ha confermato anche Davide Furlanis, medico e volontario della Croce Rossa che li ha visitati. Gli unici problemi che hanno sono le stirature e le contusioni che li costringono a consumare tubetti interi di pomate. Se le fanno giocando a calcio. Unica tentazione a cui non resistono. Si sono divisi in due squadre e hanno organizzato un torneo, con coppa. Teddy è il capitano. A parte le attività sportive e qualche dvd a disposizione per guardare la tv, i ragazzi hanno potuto anche frequentare un corso di italiano grazie alle associazioni locali e ai volontari che si sono dati da fare e. Paola, la maestra, è rimasta sorpresa dalla loro “volontà di imparare. Sono volenterosi, disposti a fare qualsiasi lavoro. Alcuni assorbono con una velocità incredibile. Sono pieni di vita, stanno dentro la vita come oramai non ci si sta più, in questa Italia vecchia e spenta”.
Siamo in cima. “La cooperativa fa quel che può. Ma i cittadini stanno dando un grande contributo”, dice Damiano Nonis, 30 anni, insegnante di educazione fisica. Gli abitanti del quartiere e i volontari di oltre venti associazioni che si sono impegnate nell’accoglienza portano di tutto in palestra: vestiti, cose da bagno, cibo. E soprattutto, loro stessi. Il loro tempo, i loro giorni di vacanza, o il primo giorno di pensione, come per Valentino. Damiano non si preoccupa della destinazione scolastica, ha passato le sue ferie qui. Va in montagna abitualmente e ha deciso di portare un gruppetto di loro con sé. “Abbiamo dormito fuori, in un bivacco. Erano così felici di vedere le montagne. Telefonavano agli amici qui: “Top of the mountain, top of the mountain”, dicevano “Siamo in cima”. Hanno grande resistenza, mangiano pochissimo”. Con lui i “ragazzi della palestra” hanno risistemato il campetto da basket e quello da calcio che ci sono lì vicino: “Abbiamo messo le porte nuove, aggiustato i canestri. È stato bellissimo”. Si è creato un rapporto molto stretto tra volontari e migranti.
Mama. “Mama, Mama, vieni”. In coro la chiamano. Non è chiaro all’istante a chi si rivolgano perché “mama” è un appellativo affettuoso che i ragazzi usano per attirare l’attenzione dell’inflessibile infermiera Florica, che distribuisce cibo, medicine e ordini militareschi, ma anche altre “mamme”: le volontarie che vanno lì a dare una mano. Tutte mamme "adottive" di molti di questi giovani che quella vera non ce l'hanno più. Alida fa parte dell’associazione pensionati della Cgil. È lei che chiamano adesso perché qualcuno le ha fatto un dono: un disegno, con dedica. L’autore è un decoratore. Era il suo lavoro in Bangladesh. “Abito qui vicino e sono venuta dal primo giorno, quando ho visto che c’erano persone che avevano bisogno di aiuto. Non voglio pensare a quando andranno via. Mi mancheranno così tanto. Sono come figli miei. E loro mi chiamano mamma. Penso a cosa accadrebbe se fossero i nostri figli, nipoti ad avere bisogno di accoglienza da qualche parte, nel mondo”. Il loro arrivo irrompe nella vita di Alida, come in quella di tutti coloro che abitano nei dintorni della palestra. Li vedono. Non più solo in tv o sui giornali. Proprio davanti alle loro finestre. Alle loro cene in famiglia. Non sono rimasti indifferenti. "Li ho invitati a cena, hanno pescato i pesci nei fossi qui vicino e hanno cucinato". Pesce, ma anche carne di pollo. Ne vanno ghiotti. "Ho visto sparire in mezzora 30 polli e 10 litri di sugo. Incredibile la fame che devono avere sofferto", racconta un volontario.
Vita sopra il materassino. I ragazzi impacchettano le loro cose. Riordinano le coperte, le lenzuola. Piegano le loro magliette con cura maniacale. Si fanno la barba, i capelli. Sanno di non poter restare lì perché a giorni altri ragazzi frequenteranno quella palestra. Anche loro sui materassi. Non per dormirci, però, solo per fare gli esercizi di educazione fisica. Gli studenti. Anche loro scherzeranno, giocheranno, si isseranno sul quadro svedese. Un’ora o due alla settimana, non di più, forse ignari dei loro precedenti coinquilini che, nonostante le preoccupazioni di qualche genitore, non lasciano sporcizia, ma solo un altro pezzettino della loro vita e del loro viaggio. “Abbiamo trovato pulito e lasceremo pulito”, dice Teddy mentre raccoglie le foglie in giardino e sistema i piatti del pranzo nei bidoni, rigorosamente differenziati.
Honoré de Balzac. In teoria sono liberi di muoversi, alcuni hanno paura della polizia. Spunta un libro dalla mensola. È Balzac. "Mi piace leggere. Soprattutto storie vere, documentari, ma anche qualche romanzo". A Emmanuel David piace andare in biblioteca. Sfuggito dalla guerra in Sierra Leone e dai soldati che lo avrebbero arruolato a soli 14 anni, poi dalla dittatura del Gambia, dai trafficanti del deserto e dalle sevizie dei libici. Sfuggito al mare del Mediterraneo e anche al suo sogno: “Studiare computer” o qualsiasi cosa possa dare “un senso alla mia vita”. Nessuno di loro ha ancora presentato i documenti per la tutela giuridica e la richiesta di asilo. Migranti economici o rifugiati di guerra. Sembra l'unica, sottile, linea rossa tra la disperazione e la salvezza. "Sapevo che era pericoloso, ma non avevo scelta. Morte certa o il mare blu. Qualcosa devi scegliere. Era la mia unica opportunità di una vita migliore". Sono parole piene di vita e di speranza. La stessa che spinge ad infilarsi dentro il cofano di una macchina, o un trolley.
Noi accettiamo. C'è un biglietto nella mia borsa, lasciata per tutto il tempo incustodita, appoggiata a terra. È scritto a penna. "In Libia, quando lavoravo, alcune persone pagavano altre persone non pagavano. Perché alcune persone non erano gentili". Un italiano perfetto. Sotto c'è scritto: "Accettare. Io accetto, tu accetti, lui/lei accetta, noi accettiamo, voi accettate, loro accettano". L'ultima "t" è stata aggiunta dopo, una correzione, non dovuta. In fondo al foglietto: "Noi accettiamo". Quale migliore scelta verbale. Una lezione a chi dimentica che un giorno potremmo tutti essere migranti: loro "accettano", noi ancora no.
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