mercoledì 12 febbraio 2014

Lampedusa: vite anNegate










Un uomo comune, un militare, un missionario
 a RUBANO con l'associazione Storia e Vita - 6 maggio 2014, ore 20.45
AUDITORIUM DELL'ASSUNTA, VIA PALU'




A Lampedusa, dove Roberto Rapisarda è stato per sette anni maresciallo della locale stazione, ha toccato con mano, la sofferenza umana, quella vera, quella che non immagini nemmeno possa esistere. «Il cittadino che vive l’intera sua esistenza in un’isola, quale appunto Lampedusa, beneficia senz’altro del fatto che la sua terra è inevitabilmente meno inquinata da tutti quei fenomeni negativi che invece, contaminano le nostre “moderne” città. Ma quando poi oltre a vivere in un’isola in mezzo al mare, sei anche un pescatore e passi gran parte della tua vita al centro del Mediterraneo, lontano anche dalla tua isoletta, ecco allora che quei fenomeni negativi, puoi non conoscerli del tutto e mantenere un animo assolutamente lindo. È questo il tipo di lampedusano che io conosco. Gente discreta, semplice, dai comportamenti umili, saggia in alcuni casi, di non comune generosità e con un elevato senso di amor di Patria».

Ma chi è Roberto Rapisarda oltre quella divisa che indossa tutti i giorni? Il maresciallo autore di “Vite Annegate” è stato anche protagonista di missioni umanitarie nei Paesi poveri dell’Africa. Una delle sue ultime missioni diciassette giorni a Mbweni, poverissimo villaggio situato a Nord di Dar Es Salaam, ex capitale della Tanzania. Come volontario ha dato il suo contributo a favore di 104 bambini orfani ospiti del Villaggio della Gioia. «È indescrivibile l’emozione che si prova nel vedere quei bambini felici sebbene siano così poveri – spiega Rapisarda – da non possedere altro che una collanina del Santo Rosario in plastica, loro donata all’atto del battesimo. Come descrivere l’emozione che si prova nel vederli sorridere per il solo fatto di aver appena ricevuto 4 biscotti secchi. E come descrivere la gioia che si prova nel vederli pregare, cantare, ricambiare l’affetto del loro grande papà Padre Fulgenzio. È tutto bellissimo e lontano dalla nostra cultura, se di cultura si può parlare, dal momento che noi occidentali, non siamo più capaci di gioire delle cose semplici». Ed ancora Rapisarda: «L’Africa ha bisogno di tutti noi e noi dei nostri fratelli africani, oggi più che mai per risolvere in parte, gli attuali problemi internazionali. Semplicemente perché l’uomo ha bisogno dell’uomo. Per esempio per risolvere il problema dell’immigrazione non bisogna pensare e chiamare l’uomo profugo, clandestino, rifugiato, poveraccio, disperato, ma bisogna iniziare a pensare a quelle persone con umiltà, solidarietà e carità trattandole da esseri umani. L’unico modo giusto di chiamarli».

«Il primo messaggio che l’autore ci trasmette nel testo è di non dimenti­care che l’immigrato è anche un emi­grato, che sta affrontando quello che è stato de­finito un “ trauma migratorio”, concetto che consen­te di definire gli ef­fetti a breve e a lungo termine del­lo sradicamento causa­to dalla mi­gra­zione e dal­la perdita dei riferimenti culturali, e i meccanismi difensivi che possono essere attivati per far fronte al­la sofferenza. La prima conseguenza dell’emigrazione è che la persona passa da un luogo in cui possedeva una identità so­ciale, una storia, legami affettivi solidi a un altro in cui essa svanisce totalmente, un luogo in cui diventa “nessuno”. L’immigrante affronta un processo psicologico che deve elaborare: la perdita o meglio la separazione da tutto quello che ha costituito il mondo oggettuale inanimato o affettivo e relazionale fino a quel momento. Persone ama­te, rapporti sociali, luoghi, odori, sapori, lingua, valori, cultura vengono a mancare in poche ore. Nel frattempo è im­pegnato nel nuovo paese. Una grande energia psichica è necessaria per af­frontare questo doppio compito ... ... Nella maggior parte delle comunità, peraltro, il progetto mi­gratorio ini­ziale è quello di un ritorno in tempi più o meno brevi al paese di origine» (dalla Prefazione di Mariella Spoto). Il libro nasce ... dall’esperienza ma­turata ... nell’isola dove il cuore di Roberto Rapisarda è rimasto e dove torna almeno due volte l’anno, armato dell’immancabile macchina fotografica, per riassaporarne gli esclusivi colori, odori e sapori, così diversi d’estate e d’inverno, per rivederne la varia umanità, accompagnato dalla moglie e dai suoi figli, ai quali ha trasmesso l’amore per la sua Lampedusa, che sente un po’ come patria adottiva, un po’ come patria a cui agognare, e non solo per le sue ineguagliabili bellezze naturali (mare trasparente, fondali da sogno, calette meravigliose) ... Perché il Paradiso non è lo spazio beato che bandisce i neri, i pove­ri, i di­seredati ... E resta tale, Lampedusa, anche oggi che i relitti umani la assedia­no, assieme ai relitti delle carrette che lì hanno scaricato e continuano a scaricare un flusso inarrestabile ...» (dalla Postfazione di Marinella Fiume).

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