(Sergio Basalisco, Mestrino –PD,
6.02.2014)
( Premessa
Sono diventato
un esule la mattina del 6 febbraio 1947 sulla motonave
Toscana che lasciava il porto di Pola, diretta a Venezia con la mia
famiglia e altri 2000 profughi polesi, ormai consapevoli che entro qualche
giorno l’ Italia avrebbe firmato il
trattato di pace impostole dai
vincitori e avrebbe ceduto alla Jugoslavia gran
parte del territorio
giuliano acquisito nel 1918 ,al
termine della Grande guerra in cui
680.000 soldati italiani erano morti (insieme a centinaia di migliaia di civili) ed
altri 700.000 erano stati resi invalidi (cfr. M. Thompson, La guerra bianca: vita e morte sul fronte
italiano 1915-1919, Saggiatore, MI
2009).
Credo si dovrebbero ricordare tutti gli esodi, a partire da
quello dei 50.000 sloveni e croati che
tra le due guerre mondiali lasciarono la
Venezia Giulia divenuta parte del regno
d’Italia che non
seppe e non
volle gestire con lungimirante
giustizia territori storicamente multietnici, fino ai 12 milioni di
europei(polacchi, tedeschi, ungheresi,..) che prima e dopo il 1945 dovettero abbandonare
case , campi , officine , botteghe
e uffici a seguito di trasferimenti forzati
in territori diversi
da quelli in cui erano
nati (cfr. E.Collotti, Gli
spostamenti di popolazione nell’Europa Centrale e nei Balcani,
Bollati-Boringhieri,TO 2009). Tra loro
si collocano i
300.000/350.000 istro-veneti, italiani
delle vecchie province ed anche slavi (non meno di 40.000) che tra il
1945 e il 1956
esodarono dalla Venezia Giulia divenuta
territorio jugoslavo.
Coltivare la memoria delle
vicende legate alle foibe e all’esodo giuliano senza conformismi nazionalistici
o ideologici si rende possibile se si ha la consapevolezza che quelle vicende vanno situate nel quadro degli orrori perpetrati nel Novecento
europeo. Nel secolo dei soldati
soffocati dai gas nelle trincee della Grande Guerra a Ypres, a
Verdun e sul monte San Michele , dei
milioni di sterminati nei lager hitleriani
e nei gulag staliniani, dei
230 ragazzi antifascisti rastrellati e impiccati con i cavi del
telefono sulla spianata di Bassano , dei
5000 militari italiani che a Cefalonia furono fucilati, bruciati, annegati per non aver accettato di proseguire la
guerra a fianco dei nazisti ,
dei 2000/15.000 infoibati in Istria tra il 1943 e il
1945 e
dei 10.000 musulmani
bosniaci massacrati dalle truppe
serbe a Srebrenica nel luglio 1995. L’
Europa e il mondo hanno bisogno di ricordare e far ricordare questi
orrori ,nel tentativo di liberarsi
della pericolosa propensione alla catalogazione gerarchica
degli umani ( cfr. L.Cavalli Sforza- D. Padoan, Razzismo
e Noismo , Einaudi, TO 2014)
in portatori di sedicenti civiltà
superiori e votati al dominio , necessariamente contrapposti
ai barbari privi di cultura e
di storia, destinati al servaggio o
allo sterminio. Le giornate della Memoria e del Ricordo
eviteranno il pericolo di scadere nella ritualità se recupereranno l’insegnamento di Walter
Benjamin : Avremo veramente elaborato
il lutto solo
quando saremo riusciti
a comprendere i dolori
e le speranze di tutte
le vittime.
Storia
e microstoria
Nella Venezia Giulia asburgica le popolazioni italiane , prevalenti a Trieste e nelle città costiere dell’Istria, e quelle slovene e croate , maggioritarie nell’entroterra, svilupparono una convivenza sostanzialmente pacifica fino agli anni Sessanta dell’ Ottocento. Molti slavi cercavano e trovavano lavoro sulla costa, imparavano l’ italiano e con i vicini italiani avevano in comune la religione e un diffuso rispetto per il carismatico imperatore Francesco Giuseppe e la sua buona amministrazione dei territori.
La casa natale a Pola |
Nella Venezia Giulia asburgica le popolazioni italiane , prevalenti a Trieste e nelle città costiere dell’Istria, e quelle slovene e croate , maggioritarie nell’entroterra, svilupparono una convivenza sostanzialmente pacifica fino agli anni Sessanta dell’ Ottocento. Molti slavi cercavano e trovavano lavoro sulla costa, imparavano l’ italiano e con i vicini italiani avevano in comune la religione e un diffuso rispetto per il carismatico imperatore Francesco Giuseppe e la sua buona amministrazione dei territori.
La tomba del pediatra, ungherese |
Ma è indubbio che anche nella multietnica Pola (dove il censimento del 1890 registrò la presenza di 19.000 italiani, 10.000 croati, 4500 austriaci e 1500 sloveni) finì per prevalere la netta contrapposizione etnico-nazionalistica tra italiani e slavi che improntò le associazioni religiose e sportive, le casse di credito, le bande musicali , i circoli di lettura,… . In un clima che fatalmente isolò i circoli operai tendenzialmente internazionalisti.
Mio padre era
un “regnicolo”, proveniente cioè
dalle vecchie province
italiane, terrone di Lucania, classe 1899, tolto – a causa degli
eventi della prima
guerra mondiale- agli studi
di ragioneria e
inviato prima sulla
linea del Piave e
poi a Trieste
e subito dopo
a Pola, dove conobbe
e sposò mia
madre. Se mio padre
poteva essere definito
come politicamente refrattario, con un
atteggiamento da meridionale
perplesso e scettico
di fronte ai
rivolgimenti politici, molto più
caratterizzata era la
famiglia di mia
madre. Il nonno materno era un
operaio dell’ arsenale navale
di Pola, che aveva messo
insieme tre figli
di un precedente
matrimonio con i
quattro avuti da
mia nonna , nata a Rovigno
in una famiglia
di piccoli proprietari
terrieri.
Dei tanti fratelli di mia madre , i più vecchi vissero la loro giovinezza da cittadini dell’ imperial – regio governo : Orfeo girava il mondo come fuochista su navi mercantili battenti bandiera austriaca ; Umberto per parecchi anni fece la spola con Vienna dove rappresentava gli istriani nel sindacato austro-ungarico dei dipendenti pubblici e , dopo il 1918, fu tra i primi ad aderire all’irredentismo nazionalista e al partito fascista . Eugenio aveva studiato medicina a Graz e tra 1914 e 1915 si iniettò il tracoma per non essere arruolato dagli austriaci ; esercitò poi la sua professione di medico ad Albona , da dove fuggì nel 1944 per riparare nel Veneto. Edgardo e Bruno , i più giovani fratelli di mia madre, parteciparono attivamente alle manifestazioni antislave organizzate dai fascisti negli anni ’20 . Bruno si laureò in economia e commercio ed ebbe ruoli dirigenziali nella burocrazia ministeriale fascista e post-fascista.
Dei tanti fratelli di mia madre , i più vecchi vissero la loro giovinezza da cittadini dell’ imperial – regio governo : Orfeo girava il mondo come fuochista su navi mercantili battenti bandiera austriaca ; Umberto per parecchi anni fece la spola con Vienna dove rappresentava gli istriani nel sindacato austro-ungarico dei dipendenti pubblici e , dopo il 1918, fu tra i primi ad aderire all’irredentismo nazionalista e al partito fascista . Eugenio aveva studiato medicina a Graz e tra 1914 e 1915 si iniettò il tracoma per non essere arruolato dagli austriaci ; esercitò poi la sua professione di medico ad Albona , da dove fuggì nel 1944 per riparare nel Veneto. Edgardo e Bruno , i più giovani fratelli di mia madre, parteciparono attivamente alle manifestazioni antislave organizzate dai fascisti negli anni ’20 . Bruno si laureò in economia e commercio ed ebbe ruoli dirigenziali nella burocrazia ministeriale fascista e post-fascista.
Si può
utilizzare la storia
di questa famiglia
,forse non troppo
diversa rispetto a quella di altre
famiglie istriane, per affermare
che gran parte
degli italiani della
Venezia Giulia era
tendenzialmente fascista ?E’ difficile
dirlo , anche se spesso ci
si è serviti
di questa sbrigativa
identificazione per spiegare
un esodo che
ha coinvolto centinaia di migliaia
di persone . Credo si
debba essere molto
più prudenti e
non si possa dimenticare
che a Pola dal
1944 risulta attivo
un Comitato di Liberazione Nazionale
cui partecipavano tutti i
partiti antifascisti, senza distinzioni
tra italiani e slavi , anche se
poteva essere difficile
per gli italiani
aderire ad un
movimento di fatto
egemonizzato, specie nelle campagne, da
formazioni apertamente schierate
per l’annessione dell’ intera
Venezia Giulia alla Jugoslavia.
Dall’autunno 1943 l’Istria , con le province di Trieste, Gorizia e Lubiana, era entrata
far parte della zona di
operazioni militari denominata
“Litorale Adriatico” , affidata
al protettorato del
carinziano Friederich Reiner e
alla polizia comandata dal generale Globocknik , responsabile in Polonia delle operazioni volte
allo sterminio degli ebrei
e a Trieste
regista dell’avviamento della risiera di San Sabba
come centro di
detenzione ed eliminazione
di ebrei e
di prigionieri politici
. A seguito di questo
atto con cui
fin da allora
il nazi-fascismo mise in
discussione la piena
appartenenza del territorio
giuliano all’ Italia, il comando
tedesco nel marzo 1945
decise di fare
del porto e della
città di Pola
una zona di
resistenza ad oltranza . Pertanto impose
immediatamente
l’arruolamento obbligatorio della
popolazione adulta maschile
nel servizio territoriale
di difesa ( si trovarono
costretti a farne
parte anche mio
padre e mio
fratello Fulvio , diciannovenne)
e lo sfollamento degli anziani, delle donne e dei
bambini nei centri minori
dell’ Istria. Caricati in
fretta e furia su
vagoni bestiame , mia madre e
noi 5 bambini e ragazzi (tra i 3 e i 16
anni), fummo spediti insieme
a migliaia di
altri polesi verso
Buje e Pirano
sulla linea Pola-Pisino-Capodistria che
correva all’interno della
penisola istriana dove
era sempre più
debole il controllo
militare dei nazi-fascisti : di giorno
il convoglio era
mitragliato dagli aerei
alleati, di notte la nostra
esigua scorta militare
aveva delle scaramucce
con i partigiani
slavi ; un paio di volte il
vagone carico di pietre che precedeva
la locomotiva saltò sulle
mine partigiane e
ogni volta bisognava
lungamente aspettare che
la linea fosse
ripristinata.
Ho ancora
nitido il ricordo del primo impatto
con i partigiani
jugoslavi che sfilano per
le vie di
Pirano a mezzogiorno del 27 o forse
del 28 aprile 1945 e che io e mio
fratello incontriamo all’
uscita dalla scuola
elementare. Ed è la
spinta di antiche
paure che ci
fa correre verso
casa piangenti per
annunciare a nostra
madre “se qua i
s’ciavi!”. Forse nello stesso
pomeriggio gli altoparlanti della
UAIS (Unione antifascista italo-slovena) impongono l’esposizione
alle finestre del
tricolore italiano con
la stella rossa , insieme alla
bandiera jugoslava e
alla bandiera rossa . Di lì
a qualche giorno
ci viene ordinato di
lasciare nelle 24 ore
Pirano e di
ritornare a Pola. Ci imbarcano
su un piccolo battello
croato che naviga lentissimamente lungo costa. Con il
fiato sospeso scrutiamo
i banchi di
mine galleggianti, nella speranza
di non incappare in
qualche ordigno disancorato
e vagante. Le operazioni
di sbarco in
un porticciolo vicino
a Pola avvengono
in modo talmente
frettoloso e sgangherato
che , con grande disperazione
e furia di
mia madre, è lasciato
cadere in acqua
proprio il prezioso
cassone dove erano
stati riposti la
farina e gli
altri viveri faticosamente
acquistati dai contadini
del piranese.
Tra l’inizio di maggio e il
12 giugno 1945 (quando a seguito dell’accordo Alexander-Tito le
truppe jugoslave si ritirano da
Trieste e da Pola) viviamo sotto
l’occupazione jugoslava e sperimentiamo la
sistematica realizzazione del
progetto politico di Tito
e del partito comunista jugoslavo. L’accordo dell’aprile
1944 tra la Resistenza
italiana(CLNAI) e quella
jugoslava aveva rinviato
alla fine della
guerra di liberazione
la definizione dei
confini nelle zone
etnicamente miste. Ma nel
successivo autunno si era
verificato un clamoroso
cambio di rotta
e la Jugoslavia
aveva presentato chiaramente il
suo proposito circa la Venezia Giulia
attraverso le dichiarazioni settembrine di
Kardely (“Diventerà nostro
territorio tutto ciò che si ritroverà alla fine della guerra
nelle mani del nostro esercito” )e del ministro degli esteri del governo
partigiano jugoslavo, Smodlaka, che
prospettò la revisione del
confine orientale come condizione
preliminare per una
duratura pace italo –jugoslava :
“ La
Jugoslavia democratica è disposta a tendere la mano alla nuova Italia e
a salutarla con le parole “Ripassate l’ Isonzo
e torneremo fratelli”…Gli
italiani potrebbero guardare con soddisfazione i loro
fratelli ben sistemati
in Jugoslavia,come oggi guardano
senza amarezza i loro connazionali della Svizzera che
sono contenti della
loro posizione e non aspirano all’unificazione politica ed
economica con la madre terra “.
Gli studi della
storiografia giuliana e in
particolare le ricerche dell’
Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nella
Venezia Giulia (Valdevit, Pupo, Spazzali
, Troha,..) permettono di dire oggi che le durezze e le vere e proprie
atrocità dell’occupazione jugoslava non possono unicamente spiegarsi come
risposta ad antiche e
vituperevoli ingiustizie , come
l’oppressiva snazionalizzazione
operata dalla dittatura fascista nei confronti
delle popolazioni slovene e
croate e
la sanguinosa aggressione
italiana alla Jugoslavia nel 1941 (dove i
comandi dell’esercito italiano
, intrappolato nella spirale
guerriglia / rappresaglia, si
resero responsabili di
crimini rimasti impuniti ). La realizzazione del progetto
annessionistico prima di
ogni negoziazione internazionale comportò
nella primavera 1945
l’imposizione del controllo jugoslavo sull’intera
Resistenza giuliana,
sottratta alla direzione
del comitato di liberazione
nazionale dell’ alta Italia
(CLNAI), e nei territori occupati il ricorso alle liste dell’ OZNA , la polizia segreta
jugoslava, per “normalizzare” l’occupazione eliminando
gli appartenenti
all’apparato amministrativo italiano (maestri , ferrovieri, impiegati
delle poste , guardie di finanza, etc) e quanti avrebbero potuto divenire
antagonisti politici come i
partigiani e gli antifascisti italiani ed
i membri non
comunisti del CLN. E’ un
evidente disegno totalitario, di cui
furono vittime anche
i prevedibili avversari
politici di Tito in
Jugoslavia : Boris Pahor
che nel 1975, intervistando l’intellettuale cattolico Edvard Kolbek
, dirigente del Fronte di
liberazione sloveno, rivelò la
fucilazione – nel corso della
guerra- di 12.000
partigiani sloveni anticomunisti , si vide
negato l’ingresso nella Repubblica federale
jugoslava ( cfr. M.VERGINELLA, Il
confine degli altri , Donzelli, Roma 2008) .
In quei 40 giorni mio padre (fino al 1942 capitano
dell’esercito italiano, in quanto
richiamato alle armi) e mio fratello maggiore (costretto all’ arruolamento obbligatorio
nel servizio territoriale di difesa
tedesco) sono nelle liste dei
ricercati dall’ OZNA che
opera soprattutto con rastrellamenti notturni
e che di notte
perquisisce 3 o 4 volte
la nostra casa ,
nel terrificato silenzio di mia madre e
di noi bambini.
Si salvano nascondendosi
presso conoscenti. Non si salva
il figlio di una famiglia amica, antifascista e studente di
filosofia; lo prendono all’ospedale dove è ricoverato per un’operazione chirurgica
e diventa uno delle
827 persone fatte
scomparire a Pola
nei 40 giorni di
occupazione jugoslava(il loro
numero è attestato dall’indagine del Governo militare alleato nel 1947).
Sono comprensibili il tripudio con cui Pola accolse il 13
giugno 1945 i reparti anglo-americani e, da quel momento, l’ apprensione con
cui la città
seguì gli incontri dei
ministri degli esteri delle potenze
vincitrici , che preparavano
il testo del
trattato di pace
con l’ Italia. Mentre
Tito, forte della sua posizione
di alleato della
coalizione anti-nazista ,
pretendeva risolutamente l’intero
territorio della Venezia Giulia
fino all’ Isonzo, anche come
compensazione del cattivo trattamento
delle minoranze slave
da parte del
regno d’ Italia e
dell’aggressione condotta
dal governo fascista
alla Jugoslavia, in Italia l’ Assemblea Costituente
e il governo
confidavano che il ruolo svolto
nella Resistenza e nella
cobelligeranza avrebbero facilitato
un trattamento non
punitivo. Il 2.07.1946 l’Assemblea costituente approvò
all’unanimità un ordine del
giorno riaffermando l’inscindibile
unità della Patria nella sua gente e nei suoi
confini ( cfr. C. MAGGIO, Il confine
orientale italiano nei
verbali dell’ Assemblea costituente, Svevo , TS 2005) . Il
giorno dopo il
consiglio dei ministri degli esteri
delle potenze vincitrici respingeva
sia la proposta russo-jugoslava di riportare il confine
orientale italiano all’Isonzo, sia quella anglo-americana sostanzialmente convergente nell’ individuare un
confine etnico (linea che doveva
lasciare il meno possibile di minoranze
sotto sovranità straniera)
e nell’assegnare all’Italia
Gorizia, Trieste, l’Istria
occidentale e Pola . Il consiglio
dei ministri delle 4 potenze faceva
propria la proposta francese che rinnegava
la linea etnica e il principio
della consultazione referendaria
delle popolazioni
(solennemente dichiarato nella Carta
atlantica), internazionalizzava
il Territorio Libero di Trieste e attribuiva
alla Jugoslavia più dell’ 80 %
del territorio giuliano. Inutilmente il 20 agosto 1946 De
Gasperi inviava un
memorandum denunciando la
sordità internazionale “al grido di dolore degli italiani dell’
Istria che stanno per abbandonare i loro paesi
per sottrarsi alla dominazione straniera” , proponendo di rinviare di almeno un anno le decisioni
sulla questione giuliana, auspicando il
ricorso al plebiscito nelle zone contestate e richiedendo l’estensione del Territorio Libero di Trieste fino a
Pola e all’isola di Lussino. La richiesta di De
Gasperi fu condivisa dal CLN della Venezia
Giulia che alle
nazioni democratiche partecipanti
alla conferenza di
pace di Parigi chiese
l’indizione di un plebiscito
sotto controllo internazionale.
L’ esodo
Avendo vissuto la dura
esperienza dell’occupazione jugoslava e
avendo visto l’andamento delle trattative di pace, fin dal luglio 1946
molti polesi manifestarono
l’intenzione di lasciare la città. Il
governo De Gasperi convocò i
rappresentanti del CLN di Pola e chiese agli
italiani dell’intera Istria
un ripensamento in
nome degli interessi
nazionali, anche nel timore che nelle
disperate condizioni in
cui versava l’Italia prostrata
dalla guerra e
dalla sconfitta l’arrivo di
300.000 / 350.000 profughi giuliani
sarebbe potuto diventare
“un salto
verso l’ignoto”. Ma le
notizie della radio e delle stampa
circa un possibile e
imminente passaggio di poteri
tra anglo-americani e
jugoslavi a Pola in
contemporanea con la firma del
trattato di pace, stabilita per il 10 febbraio 1947, crearono allarme. Sicchè dal
dicembre 1946 il CLN
di Pola , in accordo con il
governo italiano, istituì gli
uffici per l’esodo, organizzò la
distribuzione dei
certificati anagrafici e
scolastici e avviò
intese per il nolo di
navi. Ai profughi di Pola si
concesse per 3 mesi un sussidio governativo mensile di lire 300 per
famiglia , oltre ad un contributo una tantum di lire 1000
per ciascun componente
del nucleo famigliare. Nel corso
del 1947 lasciarono Pola 28.000 abitanti ( su 30.000).Era il
corrispettivo di 9000 famiglie. Già
alla fine di febbraio
se ne erano andati 5 proprietari
di albergo su 5 , 6 proprietari di pasticceria
su 6, 27 proprietari di caffè su
29, 126 osti su
156 e persino
i 5 tipografi del quotidiano filo-jugoslavo “Il nostro
giornale” , dove rimasero
soltanto due redattori.
La motonave “Toscana” iniziò i
viaggi dell’esodo il 1°
febbraio 1947, trasportando ogni
volta 1500-2000 profughi. La
mia famiglia partì
con il 2°
viaggio del “Toscana” e con noi
furono traghettate verso l’Italia un
buon numero di
vecchiette dell’ospizio di
mendicità. Partita dal porto di Pola
alle 8 di un mattino insolitamente
nevoso, la nave arrivò a
Venezia intorno alle
16 . Erano circa un migliaio i
profughi che la mattina successiva
con noi ripartirono da Venezia su un
lungo convoglio ferroviario. Noi scendemmo
con molti altri a Padova e trovammo una
città in festa
per la ripresa
delle celebrazioni goliardiche
dell’ 8 febbraio. Non
ci mettemmo molto
a scoprire un ‘ Italia poverissima e
tormentata da un inverno
straordinariamente freddo. C’era
una grande penuria di legna , carbone e gas : a Padova l’erogazione del gas si
limitava a 3 ore al giorno e dalla lettura de “Il Gazzettino” del 26 febbraio si apprendeva che sulla strada Stanghella- Solesino la polizia aveva sorpreso 150 uomini intenti a segare gli
alberi del bordo stradale
e ne aveva arrestato 11. Nell’Italia
che aveva una
gran voglia di
dimenticare rapidamente la
guerra, reduci e profughi
furono accolti con
inevitabile freddezza. Ma non
deve essere ignorato che molti Comuni si resero
disponibili ad accogliere i profughi. Circa un centinaio di impiegati pubblici
di Pola trovarono sistemazione e lavoro a Padova. Trenta anziani della Casa di
ricovero di Pola furono accolti in quella di Padova e 50 orfani provenienti dall’orfanotrofio
francescano di Pola furono inseriti in
analogo istituto di Cittadella (alla
fine di quello stesso febbraio
la questura di Padova trovò 5 di loro
alla periferia della città, decisi a ritornare a Pola a
piedi). Anche l’ ANPI e la CGIL
organizzarono una grande
manifestazione nazionale di
denuncia del duro
trattato di pace imposto all’ Italia e di solidarietà con i profughi.
A Padova
la Camera del lavoro e l’ ENAL dettero vita ad una settimana di
solidarietà con i giuliani, mentre
nelle scuole della città
e all’ Università si raccolse
danaro per i
giovani istriani. E poi
ci fu la
generosità dei singoli.
Nessuno della mia
famiglia potrà mai dimenticare che negli anni di maggiore difficoltà, quando mia madre al termine della
giornata si diceva e ci diceva con stupefatta soddisfazione “Anche oggi siamo
riusciti a mettere
qualcosa in pentola”, abbiamo incontrato a Padova un
alimentarista , il signor Ferruccio
Tomat, che aveva bottega
di casolino in via
Barbarigo e che di fronte
all’imbarazzata
dichiarazione di mio padre
che non sarebbe
riuscito a pagare puntualmente alla fine di ogni mese
tutte le ingenti
forniture di pane,zucchero,marmellata,conserva e pasta registrate
sul libretto e
delle quali campava
una famiglia di
otto persone, disse semplicemente “Lei non si
preoccupi. Mi pagherà
quando ne avrà”. E
pazientò per anni
interi senza chiedere
garanzie a noi sconosciuti, senza esprimere
la benchè minima
sollecitazione, senza mai rifiutare
nulla del molto
che ogni giorno
andavamo a prendere
nel suo negozio.
Usciti dalla stazione
ferroviaria di Padova vagabondammo due
settimane per le vie della città , apprezzando la
funzione protettiva dei portici :gli alberghi erano pochi e quasi
tutti riservati agli ufficiali alleati, gli affittacamere erano saturati
dagli studenti universitari e ovviamente
nessuno amava ricevere una famiglia composta da due genitori , due figli
grandi e
4 figli ancora bambini.
Sicchè alla sera
dovevamo dividerci per
trovare posto; alla mattina ci si ritrovava , ciascuno con una borsa proporzionata alla statura e al peso e
si riprendevano i giri alla
ricerca di un alloggio qualsiasi. Infine lo trovammo a poca distanza
dal Duomo. Si trattava di due
stanze da letto poste in un
vecchio edificio malamente
rabberciato dopo i guasti
dei bombardamenti, sotto un tetto cola-pioggia, con un cucinino , un bagno e un ingresso reso polivalente in quanto destinato a funzionare nelle varie ore del giorno come camera da
pranzo , studio, intrattenimento , gioco e letto. Il proprietario
pretese e ottenne sopra
l’affitto una indennità
una tantum di buona entrata, decisamente esosa : 250.000 lire
di allora ; nel contempo
rifiutò qualsiasi intervento
di manutenzione. Sicchè nei
mesi piovosi allineavamo
capaci pentole per
accogliere l’acqua che
scendeva dal soffitto e in
quelli più caldi
noi bambini ci
dedicavamo alla caccia dei
topi che si
affacciavano dalle assi
sconnesse del pavimento. Ma era pur
sempre una casa. Mio
padre potè dedicarsi
alla difficilissima ricerca
di un’occupazione, ricerca
particolarmente ardua per
uno che aveva
quasi 50 anni e
non aveva certamente
potuto portare con sé i
clienti del suo
negozio di abbigliamento
di Pola. Avendo vista respinta
la richiesta di
emigrazione in Australia ,dovette continuare
la sua ricerca
per molti anni e
come tanti altri italiani passò molto
lentamente dalla condizione
di disoccupato , negoziante ,
ex-negoziante a seguito
di fallimento concordato, sub-rappresentante di
commercio a quella
di lavoratore dipendente
, regolarizzato alla fine
degli anni Cinquanta ovvero
all’inizio del “miracolo economico”.
Noi bambini riprendemmo la
scuola, incontrando nuovi compagni e nuovi insegnanti, tutti troppo
impegnati nell’affrontare un
duro presente e
nel decifrare un futuro
incerto. Quasi nessuno ci
chiese da dove
venivamo e come
era il luogo
che avevamo lasciato. Noi
probabilmente non avevamo
voglia di parlarne : eravamo molto
presi da tutto
il nuovo che
così rapidamente ci
era venuto incontro
e non faticammo
a far amicizie
tra i nuovi compagni di
scuola. Al pomeriggio mentre
si sbrigavano i
compiti per casa
ci capitava spesso
di sentire una
trasmissione radiofonica dedicata
alle popolazioni dell’esodo, che esordiva
immancabilmente con un
tonante “Fratelli giuliani e
dalmati, è la Patria che
vi parla!” Mio padre , se
c’era, sghignazzava e aggiungeva
“Attenti al portafoglio
!”. C’era poco posto
per la retorica nazional- profughista a
casa nostra e
probabilmente percepivamo (
forse troppo sbrigativamente ) come
inconcludente e lamentosa l’attività
delle associazioni dei
profughi, al punto che non
frequentavamo né le associazioni, né i
loro raduni. Indubbiamente vissero
vicende ben più
dolorose delle nostre
i profughi giuliani che
nei 130 campi
di raccolta precaria
disseminati nella penisola
e attivi tra
il 1945 e
il 1970(!) patirono
i disagi della
promiscuità e della
forzata inattività.,
mescolati ai profughi
provenienti da Grecia, Libia, Algeria e Tunisia.
L’esodo ebbe
diversificate cronologie a
Zara, a Fiume, a Pola e tra
i 150.000 che
esercitarono l’opzione nell’Istria ormai
sotto amministrazione jugoslava, abbandonando case , campi, lavoro, risparmi in banca,...
Tuttavia ovunque drivò da
una decisione collettiva ( a Pola l’esodo
fu coordinato dal
CLN, altrove dalle comunità
locali), coinvolse la quasi
totalità della popolazione
italiana ( i 250.000 italiani
censiti in Venezia Giulia prima della
guerra si riducono ai
15.000 di oggi) e
riguardò tutte le
classi sociali : anche la
classe operaia che
inizialmente aveva visto
positivamente il costituirsi
dello stato partigiano jugoslavo, di
fronte alla realtà del
regime scelse l’esodo. La
Commissione
storico-culturale concordata tra
Italia e Slovenia per
studiare le vicende
svoltesi nella Venezia
Giulia tra il
1880 e il 1956, nella relazione
conclusiva pubblicata nel
2001 ha affermato : L’esodo degli italiani
dall’ Istria si configura
come aspetto particolare del
processo di formazione
degli stati nazionali in
territori etnicamente compositi. Quel processo condusse
alla dissoluzione della realtà
plurilinguistica e multiculturale esistente nell’ Europa
centro-orientale e sud-orientale. Il fatto
che gli italiani
abbiano dovuto abbandonare
uno Stato federale
e fondato su di un’ideologia internazionalista, mostra come nell’ambito stesso
di sistemi comunisti
le spinte e
le distanze nazionali
continuassero a condizionare
massicciamente le dinamiche
politiche”
La comunità
istriana e giuliana
degli esuli ha
avuto indubbie difficoltà
a farsi ascoltare
e capire. Le contrapposizioni ideologiche
della Guerra Fredda
hanno contribuito a determinare più di una strumentalizzazione : i
governi centristi hanno
corteggiato i profughi
giuliani e il
loro voto con
politiche clientelari (
facilitazioni pensionistiche , posizioni
di privilegio nell’accesso ai
concorsi per il lavoro nelle amministrazioni pubbliche,..)
ed hanno ignorato
la comunità italiana rimasta
volente o nolente
al di là della
frontiera ; la destra ha
capitalizzato le vicende
degli infoibamenti e
dell’ esodo a riprova
delle conclamate malefatte del comunismo ; la sinistra
a lungo ha
teso a spiegarle
esclusivamente come conseguenza
dell’oppressione esercitata dalla
dittatura fascista sulle
popolazioni slave, mentre il
PCI di Togliatti da
una parte si
schierava per l’italianità
di Trieste e dall’altra
si opponeva con
contorte motivazioni all’ipotesi
- sostenuta da Nenni
, da Lussu e
da Valiani- del plebiscito
per l’autodeterminazione delle
popolazioni giuliane. Bisogna arrivare
ai giorni nostri
perché tra i
post-comunisti si manifesti
una posizione ispirata
non ad un
revisionismo strumentale che
tutto occulta nel
nome della riconciliazione nazionale, ma
più promettentemente alla
volontà di ricercare
e capire leggendo
tutte le
pagine della storia . Come fa da
ormai molti anni
l’ Istituto storico del
movimento di liberazione
nella Venezia Giulia e come sta
facendo l’ ANPI veneto
con la promozione
di studi e con
la ricerca di occasioni
di confronto con
le associazioni dei
profughi . E’ anche in
questo modo che va respinta
l’indebita appropriazione della
questione giuliana da
parte della destra
nazionalista che pretende
di ignorare le
incontrovertibili
responsabilità del fascismo
che con le
brutali politiche di
snazionalizzazione delle
popolazioni slovene e
croate fin dagli
anni Venti fece dell’
Istria una polveriera
etnica, che scatenò la
guerra destinata ad una
sconfitta con ripercussioni
particolarmente dolorose per la
Venezia Giulia e
che ancora oggi
agita di tanto
in tanto le
tesi della genetica
barbarie balcanica e
dell’ineluttabilità del conflitto
italo – slavo.
Oggi , nonostante il ricorrente
manifestarsi di etnocentrismi
tribali che vivono
la differenza come
ragione di scontro, non si può non
sperare che la
caduta delle contrapposizioni ideologiche
consenta una vera
ricomposizione della storia
che metta fine
alle omissioni faziose
e finisca per
rendere nuovamente possibile
quel pluralismo etnico-culturale e
quella convivenza pacifica
tra italiani , slavi , tedeschi,
ebrei, ungheresi..che sono durati
nella mia Istria
fino alla metà
dell’ Ottocento e hanno
regalato alla regione giuliana la
straordinaria ricchezza
culturale propiziata ieri dal
meticciato di Tommaseo , Stuparich, Slataper ,
Svevo-Schmitz e oggi
di Tomizza, Magris, Pahor , Bettiza, Matvejevich , Kovacich e molti altri .
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