Dall'occupazione della Slovenia alla nascita della Zona di Operazione del Litorale Adriatico
segue da Il confine italo- sloveno 1
6. Nel 1941 le forze dell’Asse aggredirono e
invasero, senza dichiarazione di guerra, la Jugoslavia, che venne divisa tra
Germania, Italia, Ungheria e Bulgaria. All’Italia vennero assegnate la Slovenia
meridionale, annessa come provincia di Lubiana, la costa dalmata, il Montenegro
e il Kossovo. Ci soffermiamo in particolare sull’occupazione della Slovenia che
creò inevitabili implicazioni dal punto di vista dei confini. In un primo
periodo il fascismo applicò una politica moderata, ben diversa dalla prassi
tedesca, cercando di tutelare le caratteristiche etniche della popolazione con
l’instaurazione di un Alto commissario, coadiuvato da una Consulta con
rappresentanti sloveni, l’esonero dal servizio militare, l’uso della lingua
slovena nelle scuole elementari, il bilinguismo negli atti ufficiali, che portò
all’adesione di un fronte collaborazionista motivato soprattutto da un fervido
anticomunismo. Parallelamente si era costituito un vigoroso movimento di
liberazione, l’Osvobodilna Fronta (OF).
L’intensa attività sia di sabotaggi che di
guerriglia dei gruppi di resistenza, sostenuti anche dalla popolazione civile,
fece assurgere questi territori a zone di guerra in cui l’occupante italiano
incrementò l’azione repressiva, anche contro i civili, con incendi di villaggi,
esecuzioni, torture, deportazioni in campi di internamento istituiti tra il
1941 e il 1943, arrivando a un picco di recrudescenza nel 1942 in seguito alla
circolare 3C del gen. Roatta, che portò alla costituzione di una Milizia
volontaria anticomunista (Mvac) alle dipendenze degli italiani. Nonostante queste
misure di controllo e repressione, le formazioni partigiane, mosse anche dal
timore di annullamento delle loro istanze di autonomia, andavano sempre più
rafforzandosi ottenendo consensi tra la popolazione ed estendendosi anche nella
Venezia Giulia. Alla fine del 1941 a Trieste l’OF disponeva già di una rete
clandestina operativa e sottoscriveva con il Partito Comunista italiano un
patto di unità, mentre i fascisti giuliani imperversavano con azioni squadriste
e incendi di abitazioni.
7. La situazione mutò in seguito all’armistizio
dell’8 settembre 1943 che portò a un’accelerazione di quanto si era andato
delineando già nel 1942. Allo sbandamento dell’esercito italiano si unì la
completa dissoluzione della presenza statuale che venne soppiantata dall’occupazione
della Wehrmacht.
In Istria, a seguito di diverse sommosse,
vennero istituiti organismi antifascisti che si sostituivano alle autorità
italiane, e si insediarono i comandi partigiani. A Pisino, il Comitato popolare
di liberazione proclamò l’unione dell’Istria alla Croazia e furono eseguite una
serie di condanne a morte di oppositori al neocostituito sistema con la
soppressione sia di fascisti che di rappresentanti dello Stato italiano, di
avversari politici e di persone autorevoli della comunità italiana. Questo
evento è meglio conosciuto con il termine di foibe istriane. La serie di eccidi
che furono perpetrati nell’area dove era attivo il movimento di liberazione
croato, non venne intrapresa solo per ragioni politiche e sociali, ma anche per
colpire la classe dirigente locale; ciò approfondì la
diffidenza e il timore della componente nazionale italiana nei confronti del
movimento di liberazione jugoslavo e, più in generale, della lotta di
liberazione contro l’occupante tedesco. I timori che ne derivarono vennero poi
strumentalizzati dai nazisti, facendo leva sulle angosce legate alla
possibilità di cancellazione dell’intera collettività italiana. La drammatica
esperienza istriana venne interrotta dalla cruenta occupazione tedesca. Le
contrapposte memorie ricordano che per i croati questo episodio rappresenta
l’apogeo della liberazione nazionale, mentre per gli italiani, in modo
particolare per chi ritornò in Italia, esso costituisce un trauma.
È necessario rammentare che la questione
delle foibe è molto articolata e che in generale, come ha ricordato Roberto
Spazzali nella sua relazione, va considerata per dimensioni storiche e
cronologiche: differenti le foibe istriane del 1943 da quelle del 1945 nella
Venezia Giulia che coincidono rispettivamente con la caduta del fascismo e con
la fine della Zona di operazione del Litorale adriatico.
Con lo stesso vocabolo vengono definiti
episodi tra loro differenti come le stragi, le vendette politiche,
l’eliminazione di oppositori nei campi di internamento.
Nell’ottobre del 1943 venne istituita la Zona
di operazione
del Litorale adriatico (Operationszone
Adriatisches
Küstenland - Ozak) che dipendeva direttamente dal Terzo Reich
e comprendeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Lubiana, Fiume, Pola, le
isole del Quarnaro, sottratte alla Repubblica Sociale Italiana che ne prese
atto a fatto compiuto. Come risulta da un’annotazione del diario di Galeazzo
Ciano del 13 ottobre 1941, Mussolini già all’epoca era convinto che “se domani
chiedessero Trieste nello spazio vitale germanico, bisognerebbe piegare la
testa”. Nel territorio del Litorale, dunque, l’amministrazione tedesca condusse
una lotta senza quartiere contro la resistenza slovena e
italiana, utilizzando a tal fine anche le aspirazioni stanziali di gruppi ed
etnie al seguito della Wehrmacht, incaricati di compiti di repressione svolti
con particolare ferocia. In questo quadro, la presenza dei cosacchi in Carnia
costituisce l’episodio più noto e tra i più tragici nella storia della guerra
di Liberazione nell’area friulana. Non mancarono inoltre, come ha ricordato
Alberto Buvoli, tentativi tedeschi di promuovere forme di collaborazionismo
mediante l’accoglimento di alcune rivendicazioni nazionali slovene in funzione
di contrasto alla resistenza italiana, secondo il principio del divide et impera.
Hausser, generale SS comandante del litorale |
Sotto questo profilo, la vicenda del Nord-Est
italiano nel biennio 1943-1945 si presenta come un esperimento totalitario
peculiare, per l’azione di una pluralità di soggetti, alcuni dei quali
relazionati tra loro con modalità in cui collusione e conflitto appaiono
strettamente intrecciati. Come si legge nella relazione della Commissione italo
slovena, dopo l’8 settembre, “I tedeschi […] per mantenere il controllo del
territorio, fecero ricorso all’esercizio estremo della violenza, per la quale
si servirono pure della collaborazione subordinata di formazioni militari e di
polizia italiane ma anche slovene”, anche se, come precisa lo stesso documento,
il comune atteggiamento collaborazionista non servì a contenere le reciproche
diffidenze nazionali, che tornarono presto a manifestarsi con forza.
8. L’analisi dei rapporti tra la Resistenza
italiana e la Resistenza slovena e più in generale jugoslava non si presta a
giudizi unilaterali o a generalizzazioni che non tengano conto delle specifiche
realtà e delle diverse fasi in cui si sviluppò la guerra di Liberazione. Da questo
punto di vista, occorre considerare sia i momenti di forte conflittualità tra i
due movimenti, sia la collaborazione su basi anti fasciste maturata soprattutto
in seno al movimento operaio, anche prima della caduta del fascismo, e che fu
alla base dello sviluppo dei rapporti tra i due partiti comunisti, tra le
formazioni partigiane slovene e italiane e tra gli organi politici dei
rispettivi movimenti di liberazione.
È difatti innegabile che subito dopo l’8
settembre i rapporti di collaborazione tra la Resistenza italiana e quella
slovena divennero sempre più complessi; nell’autunno del 1943, la dichiarazione
unilaterale di “congiungimento” (Izjava o priključitvi Primorske) dell’intero
territorio del litorale adriatico della Slovenia da parte dell’OF, ratificata
dal Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia, se da un
lato confermava la piena assunzione delle rivendicazioni territoriali slovene
da parte del movimento comunista e la loro combinazione con gli obiettivi
rivoluzionari e classisti, dall’altro risultava potenzialmente in contrasto con
il principio dell’autodeterminazione dei popoli come base per la risoluzione
delle questioni nazionali, affermato nelle
dichiarazioni dei Partiti Comunisti italiano, jugoslavo e austriaco del ’34, e
successivamente ribadito in altre occasioni nel corso degli anni ’30. Da parte
slovena si auspicava il “congiungimento” di quei territori con insediamenti storici
sloveni e finalità di tipo rivoluzionario. Trieste diventò un nodo focale
perché rappresentava non solo a livello geografico ed economico uno sbocco
importante per la Slovenia, ma anche un ponte per la diffusione a occidente
degli ideali comunisti. Il Partito Comunista italiano, che comunque non
condivideva la posizione slovena, propose di posticipare la problematica al
dopoguerra.
Nel periodo intercorso tra l’armistizio e
l’estate del 1944, infatti, come ha ricordato Alberto Buvoli, la Direzione del
PCI dell’Alta Italia, che fu peraltro un interlocutore privilegiato del movimento
di liberazione sloveno, prese nettamente le distanze dalle rivendicazioni
territoriali jugoslave, secondo una linea di conciliazione degli interessi
nazionali con il primato attribuito
al mantenimento e al rafforzamento dell’unità
di tutte le forze antifasciste, ottenendo anche il sostegno dell’ex segretario
della disciolta Terza Internazionale, George Dimitrov, che sollecitò il movimento
di liberazione sloveno a non compromettere l’unità antifascista con iniziative
premature e a rinviare alla conclusione della guerra la definizione delle
questioni nazionali. Alla continua trattativa tra i partiti comunisti, si
aggiungono in questo periodo gli appelli unitari rivolti al movimento di
liberazione sloveno dal CLN Alta Italia, non senza risultati, se si considerano
le aperture di un dirigente come Kardelj (sloveno, stretto collaboratore di
Tito) sulla priorità da attribuire al consolidamento dell’unità antifascista e
sull’opportunità di non porre prima della fine della guerra la questione
dell’appartenenza statale di Trieste (febbraio 1944).
Al di là del carattere contingente
dell’atteggiamento distensivo dei dirigenti jugoslavi, occorre tenere presente
che su di esso influiva la strategia sovietica oscillante tra la volontà di non
incrinare l’alleanza internazionale antifascista e l’aspirazione a realizzare
un assetto geopolitico per il dopoguerra idoneo ad assicurare il massimo possibile
di sicurezza. Ciò può spiegare il sostegno più esplicito offerto alle
rivendicazioni territoriali jugoslave a partire dall’estate del 1944, nel
momento in cui l’Armata rossa era sul punto di congiungersi alle forze di Tito
e, mentre anche la liberazione del Nord Italia appariva imminente, la Gran
Bretagna – anch’essa incline a considerare con una certa benevolenza le
rivendicazioni territoriali del movimento partigiano jugoslavo – cercava di
acquisire il consenso dello stesso Tito ad un eventuale sbarco alleato in
Istria, progetto mai abbandonato da Churchill. Segue qui
Nessun commento:
Posta un commento