mercoledì 8 febbraio 2017

Il confine italo-sloveno 3

Truppe titine nell'arena di Pola, maggio '45 


La resa dei conti






Segue da: Il confine italo sloveno 2 

Una riflessione che non ha la pretesa di esaustività e merita di essere integrata da osservazioni, critiche e proposte, utili per raggiungere l’obiettivo di pervenire ad una verità storica, se non totalmente condivisa, almeno “comune” nelle grandi linee, sì da favorire l’abbandono di posizioni troppo rigide e “chiuse”, che continuerebbero a costituire un serio ostacolo per un riavvicinamento tra orientamenti diversi. Si auspica, così, la realizzazione di un tentativo, per lo meno comune, di comprensione di tutti i fattori di una vicenda drammatica, al di là di ogni preconcetto e di ogni giudizio sommario.


9. Tra l’estate e l’autunno del 1944 maturarono le condizioni per una ripresa delle rivendicazioni territoriali slovene, in direzione del Litorale e di Trieste, e per un mutamento dei rapporti di forza tra le componenti nazionali della Resistenza oltre che tra i partiti comunisti. In questo periodo si verifica infatti una situazione nuova, con il passaggio delle formazioni garibaldine sotto il controllo sloveno e la prevalenza degli elementi filo-jugoslavi all’interno delle federazioni comuniste locali – favorita di fatto dalla situazione critica di alcune unità italiane a seguito delle offensive tedesche di quel periodo oltre che dall’uccisione da parte dei nazisti di un ampio gruppo di dirigenti comunisti italiani triestini fautori dell’unità antifascista e di una politica attenta alla problematica nazionale – nonché con l’assunzione di posizioni più oscillanti da parte della Direzione nazionale del Partito Comunista Italiano. Essa era condizionata peraltro non soltanto da motivi di solidarietà internazionalista, ma anche da quello che il documento italo-sloveno definisce “l’atteggiamento assunto da buona parte del proletariato italiano di Trieste e Monfalcone, che aveva accolto la soluzione jugoslava in chiave internazionalista, come integrazione in uno Stato socialista, alle spalle del quale si ergeva l’Unione Sovietica”.
La posizione del PCI a livello nazionale non fu chiara, nel senso che non accolse esplicitamente le posizioni slovene, ma nemmeno le disapprovò. Togliatti suggerì una distinzione tra annessione di Trieste alla Jugoslavia ed occupazione della zona giuliana, posizione che aveva il sostegno sovietico e degli operai di Trieste e di Monfalcone che auspicavano una soluzione internazionalista con l’ingresso in uno Stato socialista.
Di certo, la nuova situazione determinatasi nell’estate del 1944 produsse conseguenze sulla tenuta dell’unità antifascista, che peraltro costituiva un elemento portante della Resistenza italiana, ma non era considerato allo stesso modo dal movimento di resistenza sloveno e jugoslavo, diverso per genesi, per assetto organizzativo interno e per finalità politiche. L’uscita dei comunisti dal CLN giuliano alla fine del 1944, l’organizzazione di due insurrezioni parallele a Trieste nell’aprile del 1945, sono altrettante espressioni di una crisi politica che presentò anche aspetti drammatici, emblematicamente rappresentati dall’eccidio di Porzûs, perpetrato da una formazione di gappisti nei confronti di partigiani osovani: questo episodio, in cui appare la subalternità delle organizzazioni locali del PCI agli organismi politici e militari sloveni, ebbe l’effetto di trasformare una operazione gappista in un eccidio efferato e destinato a proiettare un’ombra su tutta la vicenda della Resistenza dell’area friulana.

10. Alla fine della guerra furono differenti anche gli orientamenti verso i liberatori: da una parte la Quarta armata jugoslava e il Nono Korpus, dall’altra l’Ottava armata britannica.
Militarmente la liberazione della Venezia Giulia fu dovuta soprattutto alla Quarta Armata Jugoslava, dato che l’Ottava Armata britannica giunse alcuni giorni più tardi; per gli sloveni e i croati si trattò non solo della fine della brutale dominazione nazista, ma anche della fine di venti anni di una dittatura che aveva cercato in tutti i modi di cancellare la loro identità nazionale, senza trascurare le forme più violente di repressione.
Il 1° maggio 1945 la liberazione di Gorizia, Trieste e alcune città istriane avvenne ad opera dell’esercito jugoslavo e il CLN si ritirò per evitare combattimenti con gli jugoslavi. L’Ottava armata arrivò nel pomeriggio del 2 maggio.
I quaranta giorni di amministrazione jugoslava a Trieste e Gorizia, salutati, scrive il Documento italo-sloveno, “con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e degli italiani favorevoli alla Jugoslavia”, presentarono però risvolti drammatici per la componente italiana, sulla quale si abbatté la spirale repressiva di un movimento rivoluzionario che, come scrive il documento citato “si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani”.
Furono arrestate numerose persone, soprattutto militari e forze dell’ordine, che erano state al soldo dei nazisti, avevano combattuto per loro, erano stati delatori e collaborazionisti; ma insieme furono tratti in arresto antifascisti italiani e anche sloveni ritenuti non affidabili dalle nuove autorità; molti degli arrestati furono vittime di esecuzioni immediate, altri morirono nei campi di prigionia dove erano stati trasferiti.
Era l’inizio di un dramma nel quale all’inevitabile resa dei conti che poneva fine all’occupazione e alla dittatura, si sovrappose la prosecuzione di un conflitto nazionale, in cui la componente italiana dell’area giuliano-dalmata scontò pesantemente la precedente posizione di egemonia che aveva occupato per un ventennio, trovandosi coinvolta in uno dei grandi e traumatici spostamenti di popolazione che caratterizzarono il quadro europeo alla fine della Seconda guerra mondiale.
Con gli accordi di Belgrado del 9 giugno 1945 l’esercito jugoslavo fu costretto a ritirarsi oltre la linea Morgan che doveva rappresentare il confine tra le zone di amministrazione delle potenze vincitrici.
La Venezia Giulia venne suddivisa nella Zona A (Trieste e Gorizia) con il Governo Militare Alleato, e nella Zona B (Capodistria e adiacenze), con un governo militare jugoslavo, mentre le Valli del Natisone dipendevano dal GMA stanziato a Udine.

11. Il Trattato di pace, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, determinò una linea esclusiva delle forze vincitrici con equilibri territoriali proporzionati alle potenze, senza considerare una demarcazione di carattere etnico, impossibile da attuare tra l’altro per la particolare multietnicità di questi territori. Si attuò, quindi, una soluzione di compromesso e alla Jugoslavia venne lasciato gran parte del territorio ad eccezione di alcune parti della Venezia Giulia, di Gorizia e di Monfalcone, mentre Trieste venne in un certo qual modo internazionalizzata con la costituzione del Territorio Libero di Trieste amministrato dalle Nazioni Unite. Con il Trattato di pace la Jugoslavia acquisì, quindi, la gran parte dei territori rivendicati, ad esclusione del Monfalconese, del Goriziano e della Zona A. Con questa divisione, comunità slovene rimasero anche nelle province di Trieste, Gorizia ed Udine, così come comunità italiane rimasero in Jugoslavia. I rispettivi nazionalismi non erano però ancora sopiti.
Nel Goriziano, ad esempio, dopo il ripristino dell’amministrazione italiana si verificarono episodi di violenza sia contro gli sloveni, sia contro coloro che erano favorevoli all’annessione alla Jugoslavia, sia anche contro coloro che avevano preso parte alla Resistenza nelle formazioni garibaldine. Inoltre, nelle Valli del Natisone, del Resiano e nella Val Canale, il mancato riconoscimento della componente slovena come minoranza nazionale impedì a quest’ultima di fruire dell’insegnamento nella lingua madre e della possibilità di utilizzarla nei rapporti con le autorità. Non mancarono atti di violenza, perpetrati da gruppi di estrema destra contro la componente slovena, mentre da parte delle autorità italiane vi furono resistenze a dare attuazione ai principi costituzionali di riconoscimento dei diritti delle minoranze. La cessione dell’Istria alla Jugoslavia, invece, fece decidere a buona parte degli italiani di abbandonare la penisola usufruendo del diritto di opzione che tutelò la maggior parte del flusso migratorio (diritto sancito dal Trattato di pace del 1947, riproposto nel 1951 e dal Memorandum di Londra).
L’esodo di circa 300 mila persone destabilizzò la vita di alcuni paesi che si svuotarono quasi completamente. Come ha ricordato Gloria Nemec in occasione del Seminario di studi, gli esodi del Secondo dopoguerra si inseriscono nei processi legati alla semplificazione etnica che coinvolse in modo massiccio alcuni gruppi nazionali dell’Europa centrale, orientale e sud orientale. Nella memoria postuma, l’esodo giuliano-dalmata fu inestricabilmente accostato alle foibe, offuscando così una seria contestualizzazione e la complessità del fenomeno. Questo binomio e il suo uso ipertrofico, come sottolineato nella relazione di Gloria Nemec, eclissavano sia la storia precedente che una miriade di altri fattori necessari per capire profondamente le dinamiche di un fenomeno che fu vasto e diversificato. Lo sterile utilizzo dei numeri non ci viene in soccorso:
si passa dai 200 mila ai 350 mila senza una adeguata distinzione tra l’appartenenza nazionale e la lingua madre, interrogativo difficile da risolvere in una terra di intensa eterogeneità. Oltre agli italiani emigrarono anche croati e sloveni, non solo per motivazioni politiche, ma altresì per problemi di carattere economico, mossi dalla speranza di migliorare la propria situazione, peggiorata in seguito alla partenza di molti italiani. È quindi evidente che fattori di tipo nazionale si compenetrarono con quelli economici.

12. Nel clima di guerra fredda la Zona A assunse un’importanza eccezionale, quale argine all’espandersi del comunismo nell’Europa occidentale. Gli americani inizialmente cercarono di coinvolgere tutte le correnti politiche, poi, influenzati dalle dinamiche della guerra fredda, preferirono collaborare esclusivamente con le forze filoitaliane e anticomuniste, senza tuttavia dimenticare di tutelare la minoranza slovena nell’uso della lingua e nell’educazione scolastica, ma ostacolandone i rapporti diretti con la Slovenia. Come ricorda la relazione della commissione italo-slovena “In quegli anni fece ritorno a Trieste e a Gorizia una parte degli sloveni fuoriusciti nel periodo fra le due guerre, in particolare gli appartenenti ai ceti intellettuali, i quali assunsero importanti funzioni in campo culturale e politico”. Trieste diventò in questo senso un simbolo.
Di contro, nella Zona B, la Jugoslavia intraprendeva una politica di inclusione territoriale, instaurando il comunismo e reprimendo ogni possibile dissenso, soprattutto della componente italiana che in genere incarnava le colpe del fascismo e l’egemonia economica e culturale. Vennero allontanati tutti coloro che potevano rappresentare un preciso e forte riferimento nazionale italiano, come gli insegnanti e i sacerdoti.
La situazione già instabile subì un ulteriore scossone in seguito alla rottura tra Cominform e Jugoslavia, minando l’intesa che fino a quel momento c’era stata fra comunisti sloveni e italiani grazie ad un forte legame di classe e alla comune lotta al nazifascismo. La propensione ad un’annessione territoriale alla Jugoslavia, dove si stava costruendo un Paese comunista, conservò pertanto una comunanza di ideali tra italiani e sloveni solo fino al 1948, quando le ostilità proruppero facendo contrapporre cominformisti, la maggioranza degli italiani, e titini. La sorte degli oppositori è ben nota: espropri, carcere, deportazione, fino alle scomparse. In questo conflitto, tra l’altro, furono coinvolti i circa 2.000 operai monfalconesi e friulani che, nell’immediato dopoguerra, si erano volontariamente trasferiti in Jugoslavia con l’intento di partecipare al processo di costruzione del socialismo: molti rientrarono in Italia ma alcuni finirono nelle isole di detenzione jugoslave.
Si trattò, quindi, di un insieme plurale e molteplice di esodi diversificati cronologicamente, legati a situazioni specifiche, che portò complessivamente alla radicale diminuzione della popolazione italiana e ad una trasformazione sociale nella Zona B, quest’ultima dovuta essenzialmente all’inserimento di jugoslavi nei paesi rimasti spopolati. Questo esito fu determinato dal concorso di una pluralità di fattori che agirono nell’ambito del processo di costruzione dello Stato socialista da parte delle autorità jugoslave e che si manifestarono sia sul piano strutturale (confisca di abitazioni e proprietà agricole, peggioramento generale delle condizioni di vita) sia sul piano politico e culturale, laddove gli italiani, anche a seguito dello sgretolamento della loro precedente posizione egemonica, divennero oggetto di una conflittualità sociale segnata da episodi di violenza e da uno stringente controllo poliziesco. L’esodo, consistente all’inizio degli anni Cinquanta, aumentò con il Memorandum di Londra grazie alla possibilità di optare per la cittadinanza italiana.
La nascita di uno Stato democratico italiano divenne una forte attrattiva per quanti erano impauriti o più semplicemente non si riconoscevano nel nuovo cambiamento economico, caratteristico dei Paesi socialisti, che implicava una trasformazione anche nello stile di vita. La percezione di una minaccia scaturiva dalle continue pressioni ambientali di una società non solo militarizzata, ma anche presidiata da polizie segrete.
Il Memorandum di Londra sancì l’inizio di un nuovo periodo e concluse una delle esperienze più tragiche vissute lungo il confine italo-sloveno, come schematizza la relazione della commissione italo-slovena: “La stipula del Memorandum di Londra non risolse tutti i problemi bilaterali, a cominciare da quelli relativi al trattamento delle minoranze, ma segnò nel complesso la fine di uno dei periodi più tesi nei rapporti italo-sloveni e l’inizio di un’epoca nuova, caratterizzata dal graduale avvio della cooperazione di confine sulla base degli accordi di Roma del 1955 e di Udine del 1962 e dallo sviluppo progressivo dei rapporti culturali ed economici”.

13. Il presente documento è finalizzato a cogliere solo alcuni punti di una vicenda estremamente articolata e tale da non poter essere risolta in maniera completa in questo contesto. L’intento è quello di suggerire semplici orientamenti, utili a mettere in luce le varie criticità ed evitare di incorrere in un uso arbitrario della storia basato su interpretazioni soggettive. In occasione del Seminario di Milano è stata sottolineata da diversi relatori la necessità di intraprendere nuovi approfondimenti di studio, in modo particolare partendo da un “dialogo” tra i documenti conservati negli archivi italiani, sloveni e croati, attraverso una “nuova stagione di ricerche” che analizzi anche la profuganza clandestina jugoslava di cui ad oggi si sa ben poco, l’entità e le modalità delle opzioni respinte, così come rimarcato da Gloria Nemec, oppure permetta di ricostruire alcune biografie, come suggerito da Roberto Spazzali, ricordando che su queste tematiche si sia operato spesso con un approccio meccanicistico (ad un’azione corrisponde una reazione uguale o contraria), formula che non sempre funziona nello studio della storia.
Una riflessione, dunque, che non ha la pretesa di esaustività e merita di essere integrata da osservazioni, critiche e proposte, utili per raggiungere l’obiettivo di pervenire ad una verità storica, se non totalmente condivisa, almeno “comune” nelle grandi linee, sì da favorire l’abbandono di posizioni troppo rigide e “chiuse”, che continuerebbero a costituire un serio ostacolo per un riavvicinamento tra orientamenti diversi. Si auspica, così, la realizzazione di un tentativo, per lo meno comune, di comprensione di tutti i fattori di una vicenda drammatica, al di là di ogni preconcetto e di ogni giudizio sommario. Tutto ciò potrebbe contribuire sensibilmente ad un avvicinamento tra Associazioni che hanno spesso assunto posizioni rigidamente contrapposte e ad un complessivo “rasserenamento”, nella ricerca della verità storica, per gli stessi protagonisti di un complesso di vicende così altamente e profondamente drammatiche.
Secondo questa impostazione, la stessa ricorrenza annuale della Giornata del ricordo potrebbe assumere un significato più consono al carattere assegnatogli dalla legge istitutiva, di celebrazione civile volta alla conservazione e al rinnovamento della memoria delle vicende della guerra e del dopoguerra nell'area giuliano-dalmata.

Affinché questo fine sia effettivamente perseguito, infatti, occorre sgombrare il campo della discussione pubblica dai pregiudizi di parte e dagli esclusivismi nazionali, che fino ad un recente passato hanno fomentato strumentalmente le divisioni all'interno dei singoli Paesi e tra le diverse nazionalità. In una prospettiva europea, la Giornata del ricordo deve costituire un’occasione non per cristallizzare, ma per superare una eredità storica di conflitto, il che implica in primo luogo la liquidazione di approcci anacronistici che per troppo tempo hanno impedito di gettare le fondamenta di un’effettiva e duratura ricomposizione dei contrasti ereditati dal XX secolo.

Nessun commento:

Posta un commento

Informazioni

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7.03.2001. Parte delle immagini, loghi, contributi audio o video e testi usati in questo blog viene dalla Rete e i diritti d'autore appartengono ai rispettivi proprietari. Il blog non è responsabile dei commenti inseriti dagli utenti e lettori occasionali.