Il confine orientale prima della fine della guerra mondiale |
IL CONFINE ITALO-SLOVENO. ANALISI E RIFLESSIONI
Documento approvato dal Comitato nazionale ANPI il 9 dicembre 2016
1. Questo documento conclude il proficuo lavoro
svolto durante il seminario promosso dall’ANPI nazionale il 16 gennaio 2016 e
la successiva elaborazione, proponendosi di realizzare ed approfondire una riflessione che, alla luce
della ricerca, contribuisca a mettere a fuoco le questioni storiche relative
alle vicende del confine italo-sloveno, superando così, per quanto possibile,
visioni di parte, forzature, rimozioni e risentimenti che per lungo tempo hanno
fuorviato il dibattito e non hanno consentito di costruire una memoria critica
e comune.
L’obiettivo non è solo quello di fare il
punto, ancorché non definitivo, sulle vicende e sugli episodi più significativi
relativi alla storia del confine, ma anche quello di contestualizzarli;
l’approfondimento del contesto storico, politico e geografico, infatti, è una
condizione essenziale per conoscere e comprendere le dinamiche che hanno
portato alla grande e contraddittoria mole di eventi drammatici avvenuti nel
corso del tempo in quei territori.
Nell'ambito di questa impostazione, una delle
condizioni primarie per portare avanti in modo proficuo e senza forzature la
riflessione e la ricerca sulla vicenda del confine italo-sloveno riguarda il
superamento di un punto di vista strettamente nazionale nell'esame di oltre
mezzo secolo di storia delle relazioni tra italiani, sloveni e croati.
L’obiettivo precipuo è quello di evitare che prevalga una posizione univoca,
condizionata dall'appartenenza statuale. Questo è ancora più vero quando ci si
trova a indagare e a studiare una zona multietnica, in cui fattori di tipo
politico si mescolano inevitabilmente a quelli culturali. Per questa ragione,
si è raccolta la sollecitazione rivolta da Marta Verginella nella relazione
introduttiva al Seminario del 16 gennaio, ad adottare una terminologia coerente
con un approccio “transfrontaliero” e soprattutto adeguato al fine di
scongiurare il
rischio di perpetrare l’unidimensionalità
storiografica e politica implicita
nel punto di vista e nella collocazione
geografica e nazionale dell’espressione “confine orientale”. Questa scelta, che
comporta invece l’adozione dell’espressione “confine italo-sloveno” o
dell’espressione “ex confine italo-jugoslavo”, è tanto più ricca di
implicazioni, non soltanto terminologiche, se la si riferisce anche alla genesi
della ricorrenza del 10 febbraio come “Giorno del ricordo” e al significato che
ha assunto il decennio di celebrazioni avviato con l’approvazione della legge
n. 92 del 2004, che la ha istituita. L’articolo 1, infatti, assegna a questa
solennità civile il fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia
degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre
degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa
vicenda del confine orientale”; questa dizione era stata peraltro pacificamente
adottata dal legislatore, probabilmente sull’onda del consenso pressoché
unanime che accomunò le forze politiche di maggioranza e la maggior parte di
quelle di opposizione al momento del voto sulla legge.
2. Sotto questo profilo, il trascorrere del
tempo non ha ridimensionato la percezione di una palpabile contraddizione tra
la portata della riflessione storica, politica ed etica di cui la celebrazione
di questa Giornata dovrebbe essere occasione, così come definita nel testo del
citato articolo 1, e le reali intenzioni e finalità di chi a suo tempo la
propose. Basta scorrere, infatti, la discussione parlamentare dell’epoca,
nonché le proposte di legge presentate da parlamentari facenti capo alle forze
politiche di centro-destra nella XII, XIII e XIV Legislatura, per ritrovare
tutti i ragionamenti più tipici del revisionismo storico di inizio secolo e il
ricorso al “paradigma vittimario” di cui ha parlato Giovanni De Luna in un
recente saggio. Vi è stato un vero e proprio tentativo di appropriazione
dell’insieme degli eventi
drammatici che hanno costellato il periodo
della guerra e del dopoguerra nel confine italo-sloveno, finalizzato alla loro
trasformazione in una sorta di rendita memoriale da spendere in favore
esclusivo di una parte politica, così da strutturare una narrazione mirata alla
legittimazione per sé e alla delegittimazione degli avversari. Si tratta di un
fatto tanto più grave e discutibile, se si considera che attraverso questa
operazione si è cercato di accreditare alcuni falsi storiografici, a partire dalla
negazione del carattere storicamente plurale dei soggetti presenti in una
regione multietnica e plurilinguistica, in nome di un asserito primato
italiano, e da una rilettura delle vicende del periodo 1943-’45 che attribuisce
al conflitto di nazionalità un ruolo prioritario rispetto a quello tra
antifascismo e nazifascismo. Il fine esplicito delle iniziative legislative
sopra ricordate era quello di pervenire ad una riabilitazione di italiani
repubblichini e tedeschi impegnati a fronteggiare “l’invasione slava” in un
territorio (la Zona d’operazioni del Litorale adriatico, Operationszone Adriatisches Küstenland) peraltro sottratto all’amministrazione del
governo della Repubblica Sociale Italiana e governato direttamente da Berlino.
In altri termini, nell’intento della maggior
parte dei promotori della legge, quest’ultima avrebbe dovuto costituire il
veicolo di una contrapposizione memoriale, basata su quella che lo storico
Alceo Riosa, affrontando i temi della storia giuliana, definì la forza del mito
di sé e dell’antimito degli altri, ridotti a mera forza negativa. Questa
impostazione della normativa, uniformata alla logica dell’appropriazione delle
vittime in funzione di un progetto di rilegittimazione politica, deve pertanto
subordinare la ricostruzione dei fatti ad una precisa e circoscritta finalità e
non può, di per sé, concorrere ad un ripensamento serio e proficuo degli eventi
del confine italo-sloveno tra il 1941 e la prima metà degli anni ’50.
Una tale considerazione è, peraltro,
condizionata dalle remore e dalle reticenze in cui la logica dicotomica della
guerra fredda – della quale si alimentano le posizioni revisionistiche fin qui
tratteggiate – ha imbrigliato la ricerca storica e la riflessione politica.
Tale logica ha contribuito essa stessa a promuovere una storiografia modellata
sull’idea di centralità dello Stato nazionale e, in molti casi, subalterna alle
sue istanze politiche, ed ha ostacolato il superamento della visione
etnocentrica che tende a relegare gli “altri” nella dimensione di mero polo
negativo nella dialettica mirata ad argomentare in favore della prospettiva
nazionale prescelta. L’approccio etnocentrico ha contribuito a conferire
centralità ad una ricostruzione della storia delle aree di confine fondata in
larga misura sull’individuazione di uno spazio nazionale certo e definito, tale
da legittimare conseguenti scelte politiche e culturali.
3. Un primo passo verso il superamento di
paradigmi unidimensionali è stato compiuto nel 1993 con la costituzione della
Commissione storico-culturale italo-slovena e la redazione di un documento,
reso pubblico nel 2001, dedicato ai rapporti italo-sloveni fra il 1880 e il
1956. Il documento è stato oggetto di alcune riflessioni critiche per avere
svolto una narrazione parallela dei rapporti tra i due gruppi nazionali e per
avere posto in rilievo soprattutto i passaggi nei quali si viene configurando
il conflitto tra di essi, tralasciando, invece, di approfondire i contatti, gli
incontri, le ibridazioni che si svilupparono e si caratterizzarono a seconda
delle aree interessate, sia sul piano dell’amministrazione locale, della
cultura, dell’economia che su quello politico ed ideologico.
Al tempo stesso, per la parte che qui
maggiormente interessa, il documento della Commissione italo-slovena ha svolto
un ruolo molto importante nella definizione dei perimetri cronologici, storici
e culturali entro i quali maturarono i drammatici eventi compresi tra
l’occupazione italiana della Jugoslavia e l’esodo del secondo dopoguerra, a
partire dalle modalità con cui si venne a configurare la fisionomia dei
rapporti tra italiani e sloveni nell’area giuliana e del litorale austriaco,
sin dalla fase conclusiva della dominazione asburgica. In questa fase, afferma
il documento, “il rapporto italo- sloveno appare […] caratterizzato, secondo un
modello che si ritrova anche in altri casi della società asburgica del tempo,
da un contrasto tra coloro, gli italiani, che cercano di difendere uno stato di
possesso (Besitzstand) politico-nazionale ed economico-sociale e coloro,
gli sloveni, che tentano invece di modificare o di ribaltare la situazione
esistente”. Dal punto di vista socio-economico, questa condizione si traduce
nel dualismo oppositivo tra la fisionomia prevalentemente urbana
dell’insediamento italiano e quella prevalentemente rurale della componente
slovena, anche se questo dato non deve essere considerato in termini assoluti,
se si considera la dimensione della presenza rurale italiana in Istria e quella
urbana degli sloveni residenti a Trieste e Gorizia.
Attorno a questa polarizzazione, si sono poi
andate dislocando le posizioni dei diversi attori politici ed istituzionali: la
tendenza dell’amministrazione asburgica a favorire la componente slovena per
alimentare un lealismo da utilizzare in funzione di contrasto all’irredentismo
italiano, la radicalizzazione di quest’ultimo in senso nazionalistico e il
progressivo indebolimento delle posizioni più dialoganti, travolte dallo
scoppio della Prima guerra mondiale. Con l’ingresso dell’Italia nel conflitto,
infatti, l’irredentismo diventa parte integrante del programma nazionale e,
salvo le aperture più o meno strumentali alle rivendicazioni nazionali
jugoslave nel congresso di Roma del 1918, di poco successivo alla disfatta di
Caporetto, la politica italiana appare proiettata a perseguire gli obiettivi di
espansione territoriale definiti con il Patto di Londra, in tendenziale
conflitto con le aspirazioni nazionali slovene che, sul finire della guerra,
confluiscono nel progetto di unità statale jugoslava.
4. Con la fine della guerra, la vittoria
italiana e la dissoluzione dell’impero austro-ungarico, il processo di
annessione delle terre cosiddette irredente
ricalca cronologicamente la crisi
dello Stato liberale e, per alcuni aspetti, ne anticipa i caratteri. Dal 1918 i
territori occupati dall’Italia in seguito all’armistizio con l’Austria e poi
annessi furono soggetti prima ad un governatorato militare e, dopo il 1919, ai
commissariati civili. La prospettiva dell’inclusione di territori mistilingui,
come il Sud Tirolo e la Venezia Giulia, in una compagine statale che non si era
mai misurata con simili realtà, costituiva una novità per l’apparato
amministrativo italiano, militare e civile. In questa circostanza si
manifestarono le tare tradizionali dello Stato italiano: la diffidenza nei
confronti degli strati più deboli della società, la tendenza ad appoggiarsi su
gruppi oligarchici, il centralismo come prassi amministrativa e il
conservatorismo come opzione politica.
Il confine nel primo dopoguerra |
Questi tratti si accentuarono in relazione ad
un conflitto tra nazionalità già apertosi sotto il dominio austriaco ed
acceleratosi dopo la conclusione delle ostilità.
Né sotto il governatorato militare, né sotto
l’amministrazione dei commissari civili si ebbe la capacità politica e
culturale di prendere in considerazione una modalità di composizione che
riconoscesse alla componente slovena il diritto a mantenere le proprie
istituzioni e a partecipare alla gestione amministrativa del territorio in
posizione di parità con la componente italiana. La scelta fu quella di
sostenere, con maggiore o minore energia e convinzione, le ragioni di
un’italianità vittoriosa e dell’assimilazione intesa come subordinazione della
componente nazionale slovena all’egemonia italiana. Centralismo e nazionalismo
si alimentarono, quindi, a vicenda. Vi furono tuttavia sostanziali differenze
sul modo di pensare tale assimilazione sia per quanto riguarda i tempi che i
modi. Come ha ricordato Anna Maria Vinci nella relazione al Seminario del 16
gennaio dedicata al fascismo nelle zone di confine, il governatore militare
Petitti di Roreto ed altri esponenti dell’amministrazione militare e poi civile
cercarono di impostare tale processo in termini di gradualità e nel rispetto di
alcune prerogative delle nazionalità presenti nei territori annessi. Durante
l’amministrazione civile, molti esponenti di essa, oltre al direttore
dell’Ufficio centrale presso la Presidenza
del Consiglio, l’irredentista giuliano Francesco Salata, caldeggiarono
l’adozione di un regime di moderata autonomia per le zone mistilingue. Si
trattò di posizioni minoritarie, che peraltro escludevano qualunque forma di
istituzionalizzazione del plurilinguismo e della plurietnicità, mirando a
un’assimilazione che non era messa in discussione nel fine, bensì nei modi di
realizzazione e nella minore o maggiore gradualità dei processi.
Non a caso, le amministrazioni militari e
civili non mancarono di adottare misure fortemente restrittive e persecutorie
nei confronti della componente slovena e delle sue organizzazioni, sostenendo al
contrario le manifestazioni di italianità, anche laddove esse erano
minoritarie. Occorre peraltro ricordare che la corrività delle forze politiche
liberali italiane nei confronti del dilagante nazionalismo fece mancare un
adeguato sostegno in loco alle posizioni meno oltranziste, che furono travolte
da una radicalizzazione in senso sciovinista.
Ciò spiega anche il successo dello squadrismo
fascista nell’area giuliana ed il suo carattere particolarmente virulento.
Maturato nel mito della vittoria mutilata e alimentato dalla recente esperienza
fiumana, il fascismo giuliano, soprattutto all’indomani del Trattato di
Rapallo, assunse su di sé la funzione di difensore del confine raggiunto con la
guerra e di rappresentante della civiltà italiana contro gli slavi, ritratti
come portatori di una cultura inferiore. Come ha ricordato Anna Maria Vinci
nella relazione sopra richiamata, citando Francesco Giunta, ras incontrastato
della zona, il fascismo di confine si presentava come assertore e custode
dell’italianità, da affermare attraverso la sottomissione militare ancor prima
che politica della componente slovena.
5. Durante il regime fascista, i contatti tra
l’antifascismo italiano e il movimento nazionale sloveno si erano sviluppati
sin dalla seconda metà degli anni ’20, con la collaborazione instauratasi tra
il movimento Giustizia e Libertà e il movimento nazionale clandestino sloveno,
fondata anche sul riconoscimento da parte italiana del diritto all’autonomia
dei croati e degli sloveni e dell’eventuale revisione dei confini; inoltre nel 1934 il Partito Comunista
d’Italia siglò con il Partito Comunista jugoslavo e con quello austriaco una
dichiarazione comune, nella quale si affermava che la questione nazionale
slovena avrebbe dovuto essere risolta in base al principio
dell’autodeterminazione dei popoli, da applicarsi anche agli italiani residenti
nelle aree a prevalente popolazione slovena. Due anni dopo, nel 1936, il PCd’I
aveva sottoscritto un patto d’unità d’azione con il TIGR (Movimento
rivoluzionario nazionale degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia)
indicando come obiettivo comune la lotta al fascismo e il diritto di sloveni e
croati all’autodeterminazione ed alla secessione dall’Italia.
Nel corso della guerra, peraltro, il Partito
Comunista sloveno, nell’ambito della lotta di liberazione, ripropose con forza
le rivendicazioni nazionali già appannaggio di gruppi come il TIGR che, per la
sua attività clandestina e per le azioni terroristiche intraprese in Italia
aveva subito pesantemente la repressione fascista, e l’interpretazione sulle
modalità di attuazione del principio di autodeterminazione si rivelò assai meno
lineare di quanto risultasse nelle dichiarazioni di carattere politico
generale.
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