La scuola azienda
che piace al nuovo ministro
I problemi della scuola italiana sono molteplici e di origine antica e strutturale; tralasciando la cronica mancanza di fondi, su cui si sono accaniti i tagli lineari Tremonti-Gelmini, basta ricordare: l'assenza di formazione professionale dei docenti, esclusi un pò quelli della primaria, leggi e regolamenti che si addizionano l'uno all'altro senza integrarsi, il processo di autonomia restato incompiuto, l'assenza di responsabilità, se non quella formale, l'assenza di controllo dei risultati e per finire l'incapacità non dico manageriale, ma almeno gestionale, relazionale e organizzativa di molti cosiddetti dirigenti.
A tutto questo si aggiunge da anni la cronica apatia dei docenti, ormai sfiniti, che non reagiscono più e si danno per vinti.
L'articolo che segue approfondisce alcune di questi mali e mette in guardia su alcune possibili ulteriori derive.
Fonte: micromega
L’intervista che Stefania Giannini ha rilasciato a Vittorio Zincone sul Corriere della Sera del 21 marzo non lascia ombra di dubbio sulle intenzioni del nuovo ministro. L’esordio: Giannini non considera un “inciampo” le proprie dichiarazioni in merito alla necessità di superare il meccanismo degli scatti di anzianità: «Ribadisco con forza: solo in un sistema statico come il nostro l’anzianità è l’unico modo per valorizzare la figura dell’insegnante con un aumento dello stipendio». Il 18 marzo la Camera ha dato il via libera al Decreto che salva gli stipendi del personale della scuola dal prelievo di 150 euro e che ristabilizza gli scatti stipendiali. Giannini “non ha il dono della fede”, ma ha mandato uno dei due figli, entrambi battezzati, in una scuola cattolica. Come in tutte le interviste ribadisce che «Lo Stato deve garantire la qualità dell’istruzione, ma ogni famiglia deve avere la possibilità di scegliere»: largo ai finanziamenti alle paritarie.
Ed ecco il clou: «Premiare i più capaci, disponibili e preparati. I dirigenti scolastici dovrebbero avere l’autonomia per farlo e si dovrebbero assumere la responsabilità delle loro scelte. Un insegnante può essere premiato con un aumento dello stipendio, ma anche con il ruolo di coordinamento di un’area didattica». Incalza Zincone: Oltre ai premi anche le punizioni? «So dove vuole arrivare. Da una parte i più meritevoli promossi con un premio di produttività…». Un premio di produttività? «…se può trovi un’altra espressione dato che questa non è molto amata. Dall’altra si dovrebbe infrangere un tabù…». E punire gli insegnanti incapaci? «Anche con sanzioni, se non viene garantito un livello minimo di qualità».
La scuola-azienda alla riscossa, dunque. Il capo, il manager, il dirigente dovrebbe avere, nel Giannini-pensiero, la funzione di individuare, premiare (o punire) coloro che, a suo giudizio, lo meritano. I “nemici” di Renzi sono gli stessi della Giannini: i sindacati, che avrebbero impedito la realizzazione di una meritocrazia compiuta, in base alla quale le scuole sarebbero state in grado di funzionare meglio. Mi guardo bene dalla difesa della categoria senza se e senza ma, né mi hanno appassionato le politiche sindacali degli ultimi anni. Ma pratico le scuole da tempo sufficiente per sostenere con forza che una simile soluzione è improponibile.
La Giannini, è evidente, di scuola – come i suoi predecessori – deve aver semplicemente orecchiato qualcosa. E non usa l’intelligente prudenza dello studio, dell’osservazione, dell’attesa. Per lei, d’altra parte, “la vita è ritmo”. Sotto la seduzione della velocità moderna – o della modernità veloce – e dell’incompetenza dei suoi cantori, la scuola però rischia di essere definitivamente travolta.
La democrazia scolastica, sancita dai decreti delegati (la Giannini è prima firmataria del disegno di legge 933 del 9/7/13, che ripropone e continua il modello Aprea) si basa su un criterio di equiordinazione (e non di gerarchizzazione) delle componenti e degli organi che ne fanno parte. Esistono necessariamente delle differenze essenziali tra il Dirigente pubblico e il Dirigente scolastico, perché l’assetto organizzativo della Scuola non ha una forma gerarchica perfetta. Ne è prova la presenza degli Organi collegiali. Le decisioni che sostengono l’attività scolastica coinvolgono numerosi organi diversi, ciascuno per la propria competenza. Il dirigente dovrebbe esercitare un’azione di raccordo e coordinamento interorganico determinante e preponderante, per reare e favorire la collaborazione e la comunicazione tra i vari Organi ed evitare l’insorgere di contrasti tra loro. La disomogenea preparazione dei dirigenti, precettati – dal dlgsl che ha stabilito il passaggio dal preside al ds, 125/01 – in modi diversificati, indagando competenze e capacità differenti e spesso reclutando personale non idoneo a svolgere adeguatamente quella funzione che la norma stessa (ricordo, voluta dal centro sinistra) individua come pseudo-manageriale in una luogo, la scuola, cui la Carta affida ben altre funzioni e vocazioni, è un problema evidente.
Ogni istituzione scolastica si regge su un delicato equilibrio. La scuola “funziona” – nel senso che procede, va avanti – in due casi: quando il dirigente esercita (mi affido volontariamente al vocabolario manageriale, di cui i nostri dirigenti scolastici di ultime generazioni amano riempire i propri interventi e a cui ispirano la propria attività) una leadership autoritaria, che si basi o sulla collaborazione acritica (motivata da intima condivisione, da timore, da mancanza di autonomia) del proprio staff; o da una leadership condivisa e diffusa, poiché le responsabilità e le funzioni sono talmente ampie che non possono risiedere in capo ad un’unica persona. Il primo modello in particolare può dar luogo a valutazioni dei docenti coinvolti che esulino da altri parametri (che risulterebbero comunque opinabili – successo formativo degli studenti, la capacità di entrare in rapporto con loro, il consenso che l’attività del docente riscuota presso le famiglie – poiché i soggetti in apprendimento sono tutti diversi l’uno dall’altro, come diverse sono le opportunità che essi hanno avuto per rispondere alle sollecitazioni in un modo piuttosto che in un altro). Siamo certi che una voce contraria o costantemente contraria alle convinzioni e alla strategia di un preside-manager – in collegio, in consiglio di istituto, al tavolo della contrattazione, nel rapporto diretto uno a uno – riscuoterebbe una valutazione sempre imparziale da parte del dirigente?
Quello che colpisce è l’uso di alcuni concetti totem: autonomia e meritocrazia, in particolare. In nome della manipolazione personale, dell’interpretazione soggettiva, questi due elementi sono diventati l’Abc del moderno e aggressivo riformatore della scuola del XXI secolo. Ai dirigenti, alla loro autonomia, la Giannini vorrebbe affidare il reclutamento dei docenti, sostituendo la pratica concorsuale. Sempre a loro, il riconoscimento del merito. In un mondo triste di competizione, di clientelismo, di asservimento, di efficienza e produttività: la Scuola dov’è?
Viaggiamo a passi da gigante verso una giungla priva di garanzie, in cui ognuno fa la scuola che vuole, la scuola che pensa, senza parametri che consentano l’esercizio della divergenza, la non omologazione al Pensiero Unico, la sottrazione a logiche di mercato e clientelari. Non è bastata e non basta la pratica di reclutamento presso le scuole private, che per anni hanno abbassato livelli e innalzato privilegi soggettivi, pur di avere personale o altamente “affidabile” rispetto alle proprie finalità o manodopera a basso costo. Il modello che stanno rincorrendo – e nemmeno nascostamente – è quello.
Continua a rimanere incomprensibile l’assenza di alcun tipo di resistenza da parte della scuola. Sono queste le condizioni in cui un progetto – avventuroso e dilettantistico sì, ma preciso e finalizzato – non avrà difficoltà ad affermarsi.
Marina Boscaino
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