Cervelli in fuga
Mi sono imbattuto qualche giorno fa in una lettera a Concita De Gregorio, pubblicata su Repubblica venerdì 11 Gennaio. Poichè non tutti leggono i "giornaloni" (cit.) e non tutti, fortunati loro, frequentano la suburra del web, la pubblico qui per farla conoscere ad un'altra piccola fetta di lettori.
La lettera è particolarmente coinvolgente per chi si è incrociato con questo problema, ma oltre ad essere una perfetta sintesi della storia del nostro paese, che nessun trattato storico o sociologico potrebbe rendere altrettanto bene, concentra in sé l'altissimo valore di un trattato di etica.
Ho voluto ricopiarla manualmente evitando il facile copia e incolla che pur facilitandomi, mi avrebbe impedito di ripercorrerne i temi e riviverne pienamente l'attualità, seppure con un groppo a fatica contenuto.
"Sono un medico chirurgo in pensione da qualche mese. Sono nato a Montecilfone, un paesino del Molise, popolato da un gruppo etnico arberesh e famoso come epicentro del terremoto dello scorso anno.
Mio padre, in difficoltà economiche, negli anni 60' ha dovuto lasciare la famiglia e partire. E' stato sarto in Germania per 17 anni. Insieme a mio fratello, di qualche anno più piccolo, ho vissuto, come tanti altri ragazzi, un periodo della vita senza la presenza di un padre. Era mamma che gestiva la famiglia alternando affetto e rigore.
Sin da giovanissimo sono stato ossessionato da un sogno: diventare medico.
All'epoca l'università era accessibile solo dal liceo. A quattordici anni decisi che quella sarebbe stata la mia strada. Ero conscio che con le poche risorse della mia famiglia, l'impresa sarebbe stata a dir poco titanica.
Mia madre e tutti i parenti rimasti in paese cercarono di farmi cambiare idea.
Dopo mesi di discussione e qualche punizione, mia madre scrisse a papà.
Lui inviò indietro la mia fiducia sulle mie capacità e la mia testardaggine e posticipò il suo ritorno a casa così da avere soldi per pagare la mia università.
Con la sua assistenza lontana mi sono rapidamente trovato in mano l'agognata laurea in Medicina.
Impegno e determinazione avevano portato i frutti sperati e trasformato quello che era solo un sogno in una splendida realtà.
Ho trovato lavoro presso la Chirurgia di Ascoli Piceno, dove ho operato per gli scorsi quarant'anni.
Ho sposato Grazia, insegnante della scuola primaria, e ho due figlie: la prima ha il nome di mio padre, è medico e lavora come anestesista a Liverpool, la seconda, ingegnere civile, sta svolgendo un dottorato di ricerca ad Edimburgo.
Come il nonno, anche loro fuori dall'Italia e lontane dalla loro famiglia. Sono tornate entrambe, anche se in tempi differenti, durante queste feste di Natale che sono rapidamente terminate.
Questa mattina, sveglia alle quattro, ho accompagnato una delle mie due figlie all'aeroporto, domani accompagnerò l'altra.
Ai controlli di sicurezza, a salutare i figli in partenza per i luoghi di lavoro o di studio in Italia e all'estero.
Ho guardato i loro occhi e vi ho scorto un misto di soddisfazione e di tristezza.
Oggi, come tutti gli altri giorni, leggo che il reddito di cittadinanza verrà erogato a tutti quei figli che, senza un posto di lavoro, sono rimasti a casa. Sarò un po' assonnato, ma mi sento confuso. Dovrei forse suggerire alle mie figlie di tornare, perché ci sarò uno Stato che le assisterà o devo, ancora una volta, fare affidamento sulla saggezza di padre e suggerire loro che il guadagno e le soddisfazioni si raggiungono solo con il sudore della fronte?"
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