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Truppe titine nell'arena di Pola, maggio '45 |
La resa dei conti
Segue da: Il confine italo sloveno 2
Una riflessione che non ha la pretesa di esaustività e merita di essere integrata da osservazioni, critiche e proposte, utili per raggiungere l’obiettivo di pervenire ad una verità storica, se non totalmente condivisa, almeno “comune” nelle grandi linee, sì da favorire l’abbandono di posizioni troppo rigide e “chiuse”, che continuerebbero a costituire un serio ostacolo per un riavvicinamento tra orientamenti diversi. Si auspica, così, la realizzazione di un tentativo, per lo meno comune, di comprensione di tutti i fattori di una vicenda drammatica, al di là di ogni preconcetto e di ogni giudizio sommario.
9. Tra l’estate e l’autunno del 1944
maturarono le condizioni per una ripresa delle rivendicazioni territoriali
slovene, in direzione del Litorale e di Trieste, e per un mutamento dei
rapporti di forza tra le componenti nazionali della Resistenza oltre che tra i
partiti comunisti. In questo periodo si verifica infatti una situazione nuova,
con il passaggio delle formazioni garibaldine sotto il controllo sloveno e la
prevalenza degli elementi filo-jugoslavi all’interno delle federazioni comuniste
locali – favorita di fatto dalla situazione critica di alcune unità italiane a
seguito delle offensive tedesche di quel periodo oltre che dall’uccisione da
parte dei nazisti di un ampio gruppo di dirigenti comunisti italiani triestini
fautori dell’unità antifascista e di una politica attenta alla problematica
nazionale – nonché con l’assunzione di posizioni più oscillanti da parte della
Direzione nazionale del Partito Comunista Italiano. Essa era condizionata
peraltro non soltanto da motivi di solidarietà internazionalista, ma anche da
quello che il documento italo-sloveno definisce “l’atteggiamento assunto da
buona parte del proletariato italiano di Trieste e Monfalcone, che aveva
accolto la soluzione jugoslava in chiave internazionalista, come integrazione
in uno Stato socialista, alle spalle del quale si ergeva l’Unione Sovietica”.
La posizione del PCI a livello nazionale non fu chiara, nel senso
che non accolse esplicitamente le posizioni slovene, ma nemmeno le disapprovò.
Togliatti suggerì una distinzione tra annessione di Trieste alla Jugoslavia ed
occupazione della zona giuliana, posizione che aveva il sostegno sovietico e
degli operai di Trieste e di Monfalcone che auspicavano una soluzione
internazionalista con l’ingresso in uno Stato socialista.
Di certo, la nuova situazione determinatasi nell’estate del 1944
produsse conseguenze sulla tenuta dell’unità antifascista, che peraltro
costituiva un elemento portante della Resistenza italiana, ma non era
considerato allo stesso modo dal movimento di resistenza sloveno e jugoslavo,
diverso per genesi, per assetto organizzativo interno e per finalità politiche.
L’uscita dei comunisti dal CLN giuliano alla fine del 1944, l’organizzazione di
due insurrezioni parallele a Trieste nell’aprile del 1945, sono altrettante
espressioni di una crisi politica che presentò anche aspetti drammatici,
emblematicamente rappresentati dall’eccidio di Porzûs, perpetrato da una
formazione di gappisti nei confronti di partigiani osovani: questo episodio, in
cui appare la subalternità delle organizzazioni locali del PCI agli organismi
politici e militari sloveni, ebbe l’effetto di trasformare una operazione
gappista in un eccidio efferato e destinato a proiettare un’ombra su tutta la
vicenda della Resistenza dell’area friulana.
10. Alla fine della guerra furono
differenti anche gli orientamenti verso i liberatori: da una parte la Quarta
armata jugoslava e il Nono Korpus, dall’altra l’Ottava armata britannica.
Militarmente la liberazione della Venezia Giulia fu dovuta
soprattutto alla Quarta Armata Jugoslava, dato che l’Ottava Armata britannica
giunse alcuni giorni più tardi; per gli sloveni e i croati si trattò non solo
della fine della brutale dominazione nazista, ma anche della fine di venti anni
di una dittatura che aveva cercato in tutti i modi di cancellare la loro
identità nazionale, senza trascurare le forme più violente di repressione.
Il 1° maggio 1945 la liberazione di Gorizia, Trieste e alcune
città istriane avvenne ad opera dell’esercito jugoslavo e il CLN si ritirò per
evitare combattimenti con gli jugoslavi. L’Ottava armata arrivò nel pomeriggio
del 2 maggio.
I quaranta giorni di amministrazione jugoslava a Trieste e
Gorizia, salutati, scrive il Documento italo-sloveno, “con grande entusiasmo
dalla maggioranza degli sloveni e degli italiani favorevoli alla Jugoslavia”,
presentarono però risvolti drammatici per la componente italiana, sulla quale
si abbatté la spirale repressiva di un movimento rivoluzionario che, come
scrive il documento citato “si stava trasformando in regime, convertendo quindi
in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri
partigiani”.
Furono arrestate numerose persone, soprattutto militari e forze
dell’ordine, che erano state al soldo dei nazisti, avevano combattuto per loro,
erano stati delatori e collaborazionisti; ma insieme furono tratti in arresto
antifascisti italiani e anche sloveni ritenuti non affidabili dalle nuove
autorità; molti degli arrestati furono vittime di esecuzioni immediate, altri
morirono nei campi di prigionia dove erano stati trasferiti.
Era l’inizio di un dramma nel quale all’inevitabile resa dei conti
che poneva fine all’occupazione e alla dittatura, si sovrappose la prosecuzione
di un conflitto nazionale, in cui la componente italiana dell’area
giuliano-dalmata scontò pesantemente la precedente posizione di egemonia che
aveva occupato per un ventennio, trovandosi coinvolta in uno dei grandi e
traumatici spostamenti di popolazione che caratterizzarono il quadro europeo
alla fine della Seconda guerra mondiale.
Con gli accordi di Belgrado del 9 giugno 1945 l’esercito jugoslavo
fu costretto a ritirarsi oltre la linea Morgan che doveva rappresentare il
confine tra le zone di amministrazione delle potenze vincitrici.
La Venezia Giulia venne suddivisa nella Zona A (Trieste e Gorizia)
con il Governo Militare Alleato, e nella Zona B (Capodistria e adiacenze), con
un governo militare jugoslavo, mentre le Valli del Natisone dipendevano dal GMA
stanziato a Udine.
11. Il Trattato di pace, firmato a Parigi
il 10 febbraio 1947, determinò una linea esclusiva delle forze vincitrici con
equilibri territoriali proporzionati alle potenze, senza considerare una
demarcazione di carattere etnico, impossibile da attuare tra l’altro per la
particolare multietnicità di questi territori. Si attuò, quindi, una soluzione
di compromesso e alla Jugoslavia venne lasciato gran parte del territorio ad
eccezione di alcune parti della Venezia Giulia, di Gorizia e di Monfalcone,
mentre Trieste venne in un certo qual modo internazionalizzata con la
costituzione del Territorio Libero di Trieste amministrato dalle Nazioni Unite.
Con il Trattato di pace la Jugoslavia acquisì, quindi, la gran parte dei
territori rivendicati, ad esclusione del Monfalconese, del Goriziano e della
Zona A. Con questa divisione, comunità slovene rimasero anche nelle province di
Trieste, Gorizia ed Udine, così come comunità italiane rimasero in Jugoslavia.
I rispettivi nazionalismi non erano però ancora sopiti.
Nel Goriziano, ad esempio, dopo il ripristino dell’amministrazione
italiana si verificarono episodi di violenza sia contro gli sloveni, sia contro
coloro che erano favorevoli all’annessione alla Jugoslavia, sia anche contro
coloro che avevano preso parte alla Resistenza nelle formazioni garibaldine.
Inoltre, nelle Valli del Natisone, del Resiano e nella Val Canale, il mancato
riconoscimento della componente slovena come minoranza nazionale impedì a
quest’ultima di fruire dell’insegnamento nella lingua madre e della possibilità
di utilizzarla nei rapporti con le autorità. Non mancarono atti di violenza,
perpetrati da gruppi di estrema destra contro la componente slovena, mentre da
parte delle autorità italiane vi furono resistenze a dare attuazione ai
principi costituzionali di riconoscimento dei diritti delle minoranze. La
cessione dell’Istria alla Jugoslavia, invece, fece decidere a buona parte degli
italiani di abbandonare la penisola usufruendo del diritto di opzione che
tutelò la maggior parte del flusso migratorio (diritto sancito dal Trattato di
pace del 1947, riproposto nel 1951 e dal Memorandum di Londra).
L’esodo di circa 300 mila persone destabilizzò la vita di alcuni
paesi che si svuotarono quasi completamente. Come ha ricordato Gloria Nemec in
occasione del Seminario di studi, gli esodi del Secondo dopoguerra si
inseriscono nei processi legati alla semplificazione etnica che coinvolse in
modo massiccio alcuni gruppi nazionali dell’Europa centrale, orientale e sud
orientale. Nella memoria postuma, l’esodo giuliano-dalmata fu inestricabilmente
accostato alle foibe, offuscando così una seria contestualizzazione e la
complessità del fenomeno. Questo binomio e il suo uso ipertrofico, come
sottolineato nella relazione di Gloria Nemec, eclissavano sia la storia
precedente che una miriade di altri fattori necessari per capire profondamente
le dinamiche di un fenomeno che fu vasto e diversificato. Lo sterile utilizzo
dei numeri non ci viene in soccorso:
si passa dai 200 mila ai 350 mila senza una adeguata distinzione
tra l’appartenenza nazionale e la lingua madre, interrogativo difficile da
risolvere in una terra di intensa eterogeneità. Oltre agli italiani emigrarono
anche croati e sloveni, non solo per motivazioni politiche, ma altresì per
problemi di carattere economico, mossi dalla speranza di migliorare la propria
situazione, peggiorata in seguito alla partenza di molti italiani. È quindi
evidente che fattori di tipo nazionale si compenetrarono con quelli economici.
12. Nel clima di guerra fredda la Zona A
assunse un’importanza eccezionale, quale argine all’espandersi del comunismo
nell’Europa occidentale. Gli americani inizialmente cercarono di coinvolgere
tutte le correnti politiche, poi, influenzati dalle dinamiche della guerra
fredda, preferirono collaborare esclusivamente con le forze filoitaliane e anticomuniste,
senza tuttavia dimenticare di tutelare la minoranza slovena nell’uso della
lingua e nell’educazione scolastica, ma ostacolandone i rapporti diretti con la
Slovenia. Come ricorda la relazione della commissione italo-slovena “In quegli
anni fece ritorno a Trieste e a Gorizia una parte degli sloveni fuoriusciti nel
periodo fra le due guerre, in particolare gli appartenenti ai ceti
intellettuali, i quali assunsero importanti funzioni in campo culturale e
politico”. Trieste diventò in questo senso un simbolo.
Di contro, nella Zona B, la Jugoslavia intraprendeva una politica
di inclusione territoriale, instaurando il comunismo e reprimendo ogni
possibile dissenso, soprattutto della componente italiana che in genere
incarnava le colpe del fascismo e l’egemonia economica e culturale. Vennero
allontanati tutti coloro che potevano rappresentare un preciso e forte
riferimento nazionale italiano, come gli insegnanti e i sacerdoti.
La situazione già instabile subì un ulteriore scossone in seguito
alla rottura tra Cominform e Jugoslavia, minando l’intesa che fino a quel
momento c’era stata fra comunisti sloveni e italiani grazie ad un forte legame
di classe e alla comune lotta al nazifascismo. La propensione ad un’annessione
territoriale alla Jugoslavia, dove si stava costruendo un Paese comunista,
conservò pertanto una comunanza di ideali tra italiani e sloveni solo fino al
1948, quando le ostilità proruppero facendo contrapporre cominformisti, la
maggioranza degli italiani, e titini. La sorte degli oppositori è ben nota:
espropri, carcere, deportazione, fino alle scomparse. In questo conflitto, tra
l’altro, furono coinvolti i circa 2.000 operai monfalconesi e friulani che,
nell’immediato dopoguerra, si erano volontariamente trasferiti in Jugoslavia
con l’intento di partecipare al processo di costruzione del socialismo: molti
rientrarono in Italia ma alcuni finirono nelle isole di detenzione jugoslave.
Si trattò, quindi, di un insieme plurale e molteplice di esodi
diversificati cronologicamente, legati a situazioni specifiche, che portò
complessivamente alla radicale diminuzione della popolazione italiana e ad una
trasformazione sociale nella Zona B, quest’ultima dovuta essenzialmente
all’inserimento di jugoslavi nei paesi rimasti spopolati. Questo esito fu determinato
dal concorso di una pluralità di fattori che agirono nell’ambito del processo
di costruzione dello Stato socialista da parte delle autorità jugoslave e che
si manifestarono sia sul piano strutturale (confisca di abitazioni e proprietà
agricole, peggioramento generale delle condizioni di vita) sia sul piano
politico e culturale, laddove gli italiani, anche a seguito dello sgretolamento
della loro precedente posizione egemonica, divennero oggetto di una
conflittualità sociale segnata da episodi di violenza e da uno stringente
controllo poliziesco. L’esodo, consistente all’inizio degli anni Cinquanta,
aumentò con il Memorandum di Londra
grazie alla possibilità di optare per la cittadinanza italiana.
La nascita di uno Stato democratico italiano divenne una forte
attrattiva per quanti erano impauriti o più semplicemente non si riconoscevano
nel nuovo cambiamento economico, caratteristico dei Paesi socialisti, che
implicava una trasformazione anche nello stile di vita. La percezione di una
minaccia scaturiva dalle continue pressioni ambientali di una società non solo
militarizzata, ma anche presidiata da polizie segrete.
Il Memorandum di Londra
sancì l’inizio di un nuovo periodo e concluse una delle esperienze più tragiche
vissute lungo il confine italo-sloveno, come schematizza la relazione della
commissione italo-slovena: “La stipula del Memorandum di Londra non risolse
tutti i problemi bilaterali, a cominciare da quelli relativi al trattamento
delle minoranze, ma segnò nel complesso la fine di uno dei periodi più tesi nei
rapporti italo-sloveni e l’inizio di un’epoca nuova, caratterizzata dal
graduale avvio della cooperazione di confine sulla base degli accordi di Roma
del 1955 e di Udine del 1962 e dallo sviluppo progressivo dei rapporti
culturali ed economici”.
13. Il presente documento è finalizzato a
cogliere solo alcuni punti di una vicenda estremamente articolata e tale da non
poter essere risolta in maniera completa in questo contesto. L’intento è quello
di suggerire semplici orientamenti, utili a mettere in luce le varie criticità
ed evitare di incorrere in un uso arbitrario della storia basato su
interpretazioni soggettive. In occasione del Seminario di Milano è stata
sottolineata da diversi relatori la necessità di intraprendere nuovi
approfondimenti di studio, in modo particolare partendo da un “dialogo” tra i
documenti conservati negli archivi italiani, sloveni e croati, attraverso una
“nuova stagione di ricerche” che analizzi anche la profuganza clandestina
jugoslava di cui ad oggi si sa ben poco, l’entità e le modalità delle opzioni
respinte, così come rimarcato da Gloria Nemec, oppure permetta di ricostruire
alcune biografie, come suggerito da Roberto Spazzali, ricordando che su queste
tematiche si sia operato spesso con un approccio meccanicistico (ad un’azione
corrisponde una reazione uguale o contraria), formula che non sempre funziona
nello studio della storia.
Una riflessione, dunque, che non ha la pretesa di esaustività e
merita di essere integrata da osservazioni, critiche e proposte, utili per
raggiungere l’obiettivo di pervenire ad una verità storica, se non totalmente
condivisa, almeno “comune” nelle grandi linee, sì da favorire l’abbandono di
posizioni troppo rigide e “chiuse”, che continuerebbero a costituire un serio
ostacolo per un riavvicinamento tra orientamenti diversi. Si auspica, così, la
realizzazione di un tentativo, per lo meno comune, di comprensione di tutti i
fattori di una vicenda drammatica, al di là di ogni preconcetto e di ogni
giudizio sommario. Tutto ciò potrebbe contribuire sensibilmente ad un
avvicinamento tra Associazioni che hanno spesso assunto posizioni rigidamente
contrapposte e ad un complessivo “rasserenamento”, nella ricerca della verità
storica, per gli stessi protagonisti di un complesso di vicende così altamente
e profondamente drammatiche.
Secondo questa impostazione, la stessa ricorrenza annuale della
Giornata del ricordo potrebbe assumere un significato più consono al carattere
assegnatogli dalla legge istitutiva, di celebrazione civile volta alla conservazione
e al rinnovamento della memoria delle vicende della guerra e del dopoguerra nell'area giuliano-dalmata.
Affinché questo fine sia effettivamente perseguito, infatti,
occorre sgombrare il campo della discussione pubblica dai pregiudizi di parte e
dagli esclusivismi nazionali, che fino ad un recente passato hanno fomentato
strumentalmente le divisioni all'interno dei singoli Paesi e tra le diverse
nazionalità. In una prospettiva europea, la Giornata del ricordo deve
costituire un’occasione non per cristallizzare, ma per superare una eredità
storica di conflitto, il che implica in primo luogo la liquidazione di approcci
anacronistici che per troppo tempo hanno impedito di gettare le fondamenta di
un’effettiva e duratura ricomposizione dei contrasti ereditati dal XX secolo.