domenica 27 dicembre 2015

Controcorrente


Il Consiglio  comunale,
una farsa istituzionale.







Se si trattasse di cambiare le lampadine, fare qualche appalto, concedere qualche permesso edilizio, riparare le buche e altro di  simile, basterebbe un podestà, con molti meno rischi per il patrimonio e per le regole e meno dispendio di energie "dialettiche". Qualcuno, novello podestà, la interpreta proprio così, aiutato da norme che affidano di fatto tutto il potere ai sindaci e alle giunte, senza  nessun controllo preventivo e quasi nessuno successivo. Sì, ma se si trattasse solo di cambiare le lampadine! se invece ci si avventura nell'organizzazione di un servizio, -che so, quello dei rifiuti?- la musica cambia parecchio e i disturbi al manovratore si fanno evidenti e difficilmente eludibili.
Di fatto, però, il consiglio comunale, grazie alle recenti e meno recenti riforme degli enti locali, partite con l'intervento sul Titolo V della Costituzione (2001), aggravato da un maggioritario spinto alle estreme conseguenze (che adesso si vuole esportare anche a livello nazionale) è stato progressivamente privato di ogni funzione reale. Quasi ovunque i consiglieri di maggioranza non intervengono più in  aula, gli assessori leggono testi scritti da altri, solo le opposizioni esercitano il "diritto di tribuna" come sanno e come possono. Il pubblico, sanamente, si tiene alla larga.
Localmente la farsa viene declinata con modalità diverse e ricadute diverse sui cittadini e sull'idea che essi si formano  della cosa pubblica e della democrazia stessa. 
Talvolta con attente e interessate regie,  con qualche  artificio e molta faccia tosta, si recita la farsa della democrazia, restringendo o tentando di restringere sempre più i già esigui spazi di dibattito. 
Così succede, qua e là, che improbabili personaggi si trovino temporaneamente ad esercitare un sia pur piccolo potere, giocando sdegnosetti sdegnosetti il ruolo democratico, magari inneggiando segretamente al ritorno del duce o all'espulsione dei migranti.  Capita spesso, dalle parti del nord est leghista,  che i sindaci, colti da eroico furore, pensino di essere costantemente in campagna elettorale e si lancino in iniziative mediatiche un po' cafone, come i crocefissi negli scatoloni, i cartelli anti stranieri, la guerra al gender che non c'è, la lotta all'invasione dei migranti, la difesa del presepe.  
Altrove la sbilanciata dialettica maggioranza/opposizione viene edulcorata da un fervore di discussioni in commissioni e comitati, dove si scopre che anche i consiglieri di maggioranza hanno una voce e delle idee. Ma poi decide sempre la maggioranza: è la democrazia maggioritaria, nel bene e nel male.
Altre volte il vero potere (di inibizione) è nelle mani di terrorizzati (spesso a ragione) assessori al bilancio e il sindaco diviene assimilabile a un caporeparto della ragioneria.
Non è infrequente l'arrampicatore politico dalle scarpe a punta e dalla sciarpa intrecciata che dopo la sindacatura aspira a salire di grado, in provincia, almeno, se non in regione.
E dove c'è trippa per gatti, e soprattutto solida tradizione, compare l'amico degli amici da favorire.

Ma se c'è una vision per il futuro della propria comunità, che superi le inevitabili differenze ideologiche o politiche, che vada oltre le lampadine e le stesse immondizie, una vision che guardi al futuro non solo materiale, ma comunitario, che si nutra di ideali e non di solo parole d'ordine, il ruolo del sindaco torna ad essere determinante. Di taluni si dirà che hanno cambiato il modo di essere della comunità, di altri nessuno ricorderà più il nome dopo cinque o purtroppo anche dieci anni. 
Riassumendo: sindaci podestà, ragionieri, capi leghisti, arrampicatori politici, amici degli amici o visionari. Voi in che comune siete? 



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