sabato 11 ottobre 2014

Articolo 18, un tabù ideologico






Il tabù ideologico
ma da quale parte?











Il dibattito sul lavoro di queste ultime settimane é stato centrato, anzi deviato, quasi esclusivamente sull'art. 18. Non entro nel merito su quello che il governo farà nell'utilizzare la delega, pressoché in bianco, ottenuta dal parlamento con una manovra vagamente ricattatoria sulle minoranze esterne ed interne alla maggioranza. Sarebbero parole a vuoto, perché la delega, pur elencando numerosi punti interessanti resta troppo vaga per essere qualificata nell'una o nell'altra direzione. 


Lodevole l'impegno di ridurre le forme di contratti a tempo determinato e tutte le forme atipiche che lo caratterizzano, vaghissima come sempre la quantificazione delle risorse da utilizzare per rendere più facili le assunzioni (questo é il vero problema!  anche Draghi sembra concordare..) e per tutelare i lavoratori tra un impiego e l'altro in alternativa alle garanzie dell'art.18, per altro molto ristrette dalla legge Fornero e comunque riguardanti solo una parte di una parte: i cosiddetti garantiti delle aziende con più di 15 dipendenti.

La difesa dell'art. 18 è stata qualificata come battaglia di retroguardia in difesa dell'antico o peggio in difesa dei lavativi (sentita con le mie orecchie durante il dibattito parlamentare!). C'è in me la profonda convinzione, che attende smentite, che si tratti sì di un simulacro ideologico, ma utilizzato non dai suoi difensori, bensì da coloro che lo vogliono abolire, offrendo alla parte padronale una non tanto simbolica posizione di supremazia.

Il testo originario del Disegno di legge delega sul lavoro

Il testo completo del maxiemendamento

Scheda riassuntiva

La sintesi di Repubblica

La dichiarazione di voto del M5S in senato


Di seguito la posizione di SEL, che anche senza sceneggiate in parlamento, ha contrastato la legge delega sul lavoro, volgarmente definita Jobs Act dagli anglofoni a tutti i costi.


Altro che tabù! Dell’art. 18 St. lav. si parla e si straparla. In Italia e in Europa. Per vero, nella stagione dell’eclissi del lavoro dallo spazio pubblico, mettere a tema l’architrave dello statuto protettivo dei lavoratori subordinati in Italia sarebbe anche un bene, se il dibattito non fosse costellato di quelle che Luciano Gallino chiama “idee ricevute”, ossia tesi e teoremi del tutto destituiti di dimostrazione teorica e fondamento empirico, divenuti nel tempo “senso comune” perché non efficacemente contrastati. E i luoghi comuni attorno all’art. 18 davvero si sprecano. Richiamando in rapida sequenza solo i principali, si dice dell’art. 18 che: a) impedisce, sostanzialmente, il licenziamento nelle imprese con più di 15 dipendenti; b) prevede, con la reintegrazione, una forma di tutela che non ha eguali in Europa; c) produce disuguaglianze tra lavoratori iperprotetti (c.d. insiders) e lavoratori sprovvisti di ogni tutela (c.d. outsiders); d) contempla una misura riparatoria largamente ineffettiva, come dimostrerebbero i dati sulle “reintegrazioni” cui si da concretamente corso all’esito dei processi. Sulla base di quest’ultima deduzione, peraltro in aperta contraddizione con tutte le altre, la battaglia a difesa dell’art. 18 sarebbe essenzialmente ideologica o, al limite, soltanto “simbolica”.

Ciascuno di questi quattro argomenti può essere contrastato. Ed è bene che lo sia, senza rinunciare a fornire dimostrazione di ciò che pure suona ovvio a chiunque abbia una pur minima consuetudine con il mondo del lavoro e il suo diritto.

In primo luogo è bene ricordare che l’art. 18 prevede una forma di tutela contro il licenziamento illegittimo e dunque privo di una valida giustificazione soggettiva o oggettiva, mentre sono perfettamente legittimi, in Italia come nel resto d’Europa, tanto i licenziamenti sorretti da motivi legati all’attitudine o alla condotta dei lavoratori, quanto quelli fondati su esigenze organizzative o economiche dell’impresa. In relazione a questi ultimi, per i quali è primariamente invocato il superamento della tutela “forte”, ciò che allontana l’Italia da altri paesi europei è, semmai, un fattore diverso e opposto rispetto a ciò che si denuncia: mentre in Italia ogni modifica organizzativa, purché effettivamente sussistente, autorizza il licenziamento senza alcun costo per l’impresa, in altri ordinamenti quali Spagna, Portogallo, Gran Bretagna e, a partire dal 2004, anche Germania, al lavoratore espulso per ragioni attinenti all’impresa è comunque riconosciuta un’indennità, variabile in ragione dell’anzianità di servizio, in funzione compensativa del pregiudizio subito. Ciò, per esser chiari, anche in caso di licenziamento perfettamente legittimo: il che sarebbe auspicabile e pure ragionevole in un sistema costituzionale nel quale convive, accanto alla libertà d’iniziativa economica (art. 41, co. 1), anche il limite della sua utilità sociale (co. 2), mentre il riconoscimento del diritto al lavoro figura tra i principi fondamentali (art. 4 Cost.)[1].


Venendo al secondo argomento, l’imputato del XXI secolo è senz’altro la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato nel posto di lavoro: ciò che farebbe dell’art. 18 un unicum nel panorama europeo. Anche questa tesi è errata. Essa, innanzitutto, ignora, o finge di ignorare, il vigoroso restyling cui l’art. 18 è stato sottoposto, appena due anni or sono, ad opera della l. n. 92/2012 (c.d. riforma Fornero) e, in secondo luogo, trascura i rimedi esperibili contro il licenziamento illegittimo in altri ordinamenti spesso invocati a modello.

Sul primo versante, in molti sembrano aver dimenticato che dal 2012 la reintegra è applicabile ai casi, tecnicamente residuali, d’illegittimità “qualificata”, vigendo nella generalità delle ipotesi una tutela contro i licenziamenti abusivi esclusivamente monetaria. In concreto, la reintegrazione è ancora prevista, quale che sia il numero dei lavoratori occupati nell’impresa, per il licenziamento affetto da nullità, perché discriminatorio o espressamente vietato dalla legge (come per la lavoratrice madre), mentre è contemplata, nelle imprese con più di 15 addetti, in situazioni eccezionali: nel licenziamento per motivo soggettivo (c.d. disciplinare), quando la condotta rimproverata al lavoratore non sussiste, non gli è imputabile, oppure quando il comportamento è punito, per espressa previsione contrattual-collettiva, con una sanzione meno grave (c.d. sanzioni conservative); nel licenziamento per motivo oggettivo, quando la causa economico-organizzativa risulta del tutto fantasiosa e/o pretestuosa, essendo accertata in giudizio la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” (art. 18, co. 7).

Ebbene, al netto dei molti difetti che affliggono il nuovo testo dell’art. 18 scaturito dalla riforma Fornero – assai meno semplice e lineare della versione originaria: quella sì, perfettamente traducibile in inglese! – nessun giurista europeo rimprovererebbe mai al legislatore italiano d’aver conservato la reintegrazione nei pochi casi in cui è prevista. La restituito in integrum, “il più antico ed efficace rimedio contro gli abusi”[2], è nota a tutti i paesi di tradizione giuridica anche minimamente paragonabile al nostro – dall’Austria alla Francia, dalla Spagna al Portogallo, dalla Germania fino al Regno Unito, che pure è paese notoriamente distante dal c.d. modello sociale europeo –  ogniqualvolta il licenziamento sia affetto da una causa di nullità[3]. Ed anche oltre. In alcuni ordinamenti, come quello anglosassone, l’ordine di reimpiego (re-employment) è, nei fatti, piuttosto raro; in altri è più comune, essendo preferito non soltanto quando il licenziamento sia discriminatorio ma anche quando importi la violazione di diritti fondamentali o libertà pubbliche costituzionalmente garantite: così per la Spagna, laddove la readmisión inmediata  è espressamente prevista dall’art. 108, co. 2, Ley de Procedimento Laboral e per la Francia, dove la reintegrazione, oltre a rappresentare la forma di tutela comune dei rappresentanti dei lavoratori (c.d. salariés protéges) e di quanti versino in particolari situazioni personali (gravidanza, maternità, malattia, infortunio ex L. 1225 ss. CT), è considerato dalla giurisprudenza il rimedio più adeguato ogniqualvolta sia accertata la violazione di una liberté fondamentale. Infine, se in Portogallo la reintegração continua tuttora a costituire rimedio generale avverso i licenziamenti illegittimi (art. 389 CT), in Germania la facoltà di ordinare la prosecuzione del rapporto originario (Weiterbeschäftigung ) è rimessa al giudice, che la dispone, di regola, in caso di licenziamento manifestamente infondato o viziato. È davvero bizzarro che tale sistema sia spesso invocato a modello, quando in Italia la preoccupazione maggiore sembra essere, almeno dal Collegato lavoro del 2010 in avanti, quella di limitare le prerogative del giudice, sia in rapporto alla flessibilità “in entrata” (decreto Poletti docet), sia a quella “in uscita”.

Il terzo argomento, quello attinente al dualismo del mercato del lavoro, ha un suo fondamento solo nella misura in cui è oggettivamente assai labile la tutela contro il licenziamento nelle imprese con meno di 16 dipendenti: spettando qui ai lavoratori illegittimamente licenziati la sola tutela indennitaria, peraltro molto esigua (tra 2,5 e 6 mensilità), essi finiscono per somigliare molto ai lavoratori precari, limitati nell’esercizio dei diritti perché continuamente esposti al ricatto occupazionale. Si tratta, peraltro, di condizione comune ai mercati del lavoro degli altri paesi UE, Germania e Francia comprese, con la differenza, non marginale, che in tali paesi l’asticella è fissata sulla minor soglia dimensionale dei 10 dipendenti, in luogo di 15.

Concludendo sulla “favola dei superprotetti”[4], non è un caso che nelle tabelle statistico-comparative elaborate dall’Ocse, l’indice di protezione dei lavoratori a tempo indeterminato (EPRC) attribuito all’Italia, nel quale gioca un ruolo determinante la disciplina dei licenziamenti, sia pari a 2,79, inferiore a quello assegnato tanto alla Francia (2,82) quanto alla Germania (2,98).

Ed è davvero stupefacente, e in qualche misura beffardo, che proprio all’art. 18 sia imputata la precarietà dei non garantiti da parte di un governo che ha appena rimosso la necessità di giustificare, con un’esigenza temporanea dell’impresa, un’assunzione temporanea nell’impresa: ciò che è avvenuto, con il I atto del Jobs Act (c.d. decreto Poletti), tanto per i contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato quanto per i contratti a termine, pure portando addirittura da una a cinque le proroghe, sempre a-causali, del termine finale di scadenza del contratto.

Il quarto argomento, oltre ad essere il più utilizzato, è anche il più odioso. La contesa sull’art. 18 non è affatto simbolica, avendo direttamente a che fare col rapporto tra lavoro e libertà: libertà di esercitare, nel corso del rapporto di lavoro, tutti i diritti riconosciuti dalla legge e dai contratti collettivi, in ciascuno degli ambiti sottoposti ad una disciplina legale o contrattuale in funzione di tutela della persona che lavora (dalla difesa della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro alla tutela della professionalità, dalla regolazione dell’orario di lavoro ai diritti sindacali…).  Detto altrimenti, è ben difficile che un lavoratore sprovvisto di un efficace strumento di protezione contro un licenziamento ingiustificato, si azzardi ad organizzarsi collettivamente e a denunciare, anche giudizialmente, un rischio per la propria sicurezza, a contestare un demansionamento, a rifiutare una richiesta abusiva di lavoro straordinario o notturno, a esercitare un diritto sindacale, ivi compreso il diritto di sciopero riconosciuto in Costituzione, quando la sua controparte ha licenza di licenziare, magari invocando a pretesto una ragione economica.

Qualcuno risponderà solerte che questa è una posizione “ideologica”, indimostrabile e indimostrata, mentre le statistiche attestano casi risicati di effettiva reintegrazione. Peccato che queste statistiche non provino nulla. Se invece di guardare alle cause di licenziamento, si misurassero le controversie avviate a rapporto ancora in corso, e quale che ne sia l’oggetto, si scoprirebbe che esse sono attivate, nel 99% dei casi, da lavoratori “coperti” dall’art. 18, pur essendo i medesimi circa la metà della forza lavoro. Forse, solo allora, con la forza dei numeri sovrapposta alla legge della ragione, avremo “dimostrato” quel legame tra lavoro e libertà che alberga nella norma più invisa a quanti hanno il privilegio di tenere il coltello per l’impugnatura.
Fonte: SEL nazionale

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